mercoledì 3 dicembre 2008

Il mito dell'atemporalità#2

La concezione non lineare ma ciclica del tempo e le opere delle arti figurative sono modi di “fermare il tempo” diversi dalla uscita dal tempo dei contemplativi e configurano quindi esperienze della paradossalità per cui il mezzo si impiega contro il mezzo. La pittura, la scultura, la fotografia… fermano il tempo facendo perdurare lo stimolo, che appare immutato nello svolgersi del flusso percettivo. Ancor più interessanti gli esempi che vengono proprio dalle arti del tempo: la musica e la narrazione. Per la musica, oltre agli esempi che ci offre quella — per esprimerci con un solo aggettivo — orientale, possiamo ricordare, per la musica occidentale, alcune composizioni in cui la ripetizione è usata intenzionalmente ed esplicitamente, come il Clavicembalo ben temperato di Bach, il Bolero di Ravel, Vexations di Satie, il primo movimento della Settima sinfonia di Shostakovich o quelle finalizzate a sfiorare la atemporalità, come le composizioni di una corrente (detta proprio di “musica ripetitiva”) di autori contemporanei come Terry Riley, Steve Reich, Philip Glass, etc. Ma, comunque, la musica o la danza nella loro totalità realizzano la possibilità di offrire l’assoluto proprio nel fluire della forma. Per la letteratura non si può non ricordare la poetica proustiana, secondo la quale per padroneggiare il tempo è necessario arrestarlo. E chi può arrestare il tempo è la narrazione, intesa come una sequenza di metafore sviluppate che il poeta sa cogliere, permettendo di fuggire dalla realtà frammentata che si vive momento in momento e di nutrirsi, invece, dell’essenza delle cose: “il miracolo di un’analogia”, scrive Proust, “mi aveva fatto sfuggire al presente. Lui solo aveva il potere di farmi ritrovare i giorni passati, il tempo perduto”. La scrittura, operando il passaggio dal mondo attuale al mondo rievocato, realizza la sintesi che consente di vivere e godere di quell’essenza e dare esperienze di felicità, tanto da far dire a Proust che “la vera vita, la vita finalmente riscoperta e illuminata, la sola vita, dunque, pienamente vissuta, è la letteratura”. Se ri-cordare, ri-conoscere, ri-vivere sono modalità che caratterizzano le esperienze più intense della nostra vita, possiamo concluderne che la ri-petizione, come elemento di atemporalità, è ben presente nella nostra vita (tutta fatta di ripetizione di archetipi? Vivere = ri-vivere?) come atemporalità dinamica, che può offrirci la possibilità di vivere in due “momenti” di uno “stesso” tempo, e che si contrappone così alla atemporalità statica. Se non si accede pienamente alla coincidenza di Nirvana e samsara, cioè di sacro e profano, non è facile assumere questo punto di vista e anche un pensatore così lucido come Eliade, indagando sull’umana esigenza del sacro e sull’esperienza rituale di unione col divino, osservava come essa non realizzi che un mero effimero contatto, che riporta poi ineluttabilmente l’individuo “nella sua triste condizione umana limitata da attributi e spezzata”; c’è nelle sue parole un rammarico per il fatto che “in tutta la storia religiosa dell’umanità persiste, come una maledizione, questa discontinuità della sperimentazione del sacro. Nessun uomo può rimanere ininterrottamente nella sacralità. Perfino il sacerdote si crea una condizione spirituale del tutto particolare, quando compie un rituale o un mistero — e poi ritorna al suo stato di tutti i giorni, profano. Il “sacro” essendo totalmente diverso dal profano, non può essere sopportato dall’uomo in continuità. In alcuni testi indiani si dice che il brahmano che ‘non discende per tempo dallo stato sovrumano che gli crea il sacrificio’, è ucciso sul posto — è ucciso proprio dalla forza sacra, che la sua povera natura creata, limitata, non può sopportare”. L’uomo, dunque, nell’attuale condizione, secondo Eliade, non può “vivere” l’assoluto senza alterarlo, perché non si può “sopportare la vicinanza della divinità se non temporaneamente”. Sentiamo che il totalmente altro è visto ancora come totalmente altrove e quindi che possiamo “afferrarlo” solo in rari momenti di discontinuità del tempo profano. Diversamente, se proviamo a pensare a una esperienza religiosa meno conflittuale, che parta proprio da questa umana debolezza, da usare come forza invece che vivere come maledizione, potremo arrivare a scorgere nel carattere transitorio dei fenomeni il loro aspetto assoluto e nell’impermanenza quella che è stata chiamata la “natura buddhica”. Il totalmente altro non sarà più un altrove, ma l’“altrimenti” di un nuovo punto di vista, con il quale realizzare una conoscenza non-duale della realtà, l’intuizione che la “vanità delle cose” conduce a una quotidianità “tragicamente” redenta. Il limite non sarà allora nel finito che muta, ma piuttosto nell’arresto di quel processo di educazione che porta al “raggiungimento del fine umano”, meta che “inquadra significativamente l’uomo nella creazione e che allo stesso tempo dà a questa un significato” (Jung). 

1 commento:

Anonimo ha detto...

I suoi post sono sempre così impegnati ed autorevoli che non ho mai trovato il coraggio di commentare.
Stavolta lo faccio giusto per farle sapere che sono un suo lettore abituale, che considero il suo uno dei blog migliori - se non altro come contenuti - e che lei è ogni volta fonte di profonde e "rivoluzionarie" introspezioni.
Grazie e complimenti.