mercoledì 1 ottobre 2008

La pratica meditativa

La pratica suggerita dal buddhismo mahayana, in particolare Tiantai/Tendai (in concordanza con altre dottrine di vita e vie di saggezza), può condensarsi nella incessante applicazione di calma e discernimento a tutte le situazioni e condizioni della vita.

Il superamento della finitezza e l’accesso alla dimensione di infinità della Vita si offrono come esperienze dell’

·       Assoluto-Uno nella calma (“nella conversione e nella calma sta la vostra salvezza, nel silenzio e nell’abbandono fiducioso sta il vostro eroismo”, Is., 30, 15; “la tranquillità della natura ultima di tutte le entità è detta ‘calma’”, Endon Shikan; “quidquid inquietat est a diabolo”) e

·       Assoluto-Tutto nella consapevolezza dell’interrelazione universale (“il suo perenne splendore è detto ‘discernimento’”, Endon Shikan): la pratica individuale realizza, pertanto, non solo una illuminazione nel mondo ma la illuminazione del mondo (responsabilità cosmica della coscienza).

Il fine della meditazione formale non è quindi quello di realizzare una sorta di psicoterapia di rilassamento o di produrre un affievolimento e una decostruzione del soggetto, ma di aprirlo alla meravigliosa e inquietante misteriosità del mondo cui appartiene, e di metterlo in grado di narrare, in esso, la propria storia. Si tratta, in altre parole, di un processo di intensificazione della soggettività per costruire un sé espanso, capace di uno sguardo e di una sensibilità che dall’io separato lo conduca alla percezione della Vita aperta.  Alla mistica dell’Uno come indistinzione il buddhismo Tiantai/Tendai prova a sostituire una mistica del Tutto come universale incarnato, in cui nulla si perde del fenomeno, che viene anzi arricchito dalla visione di esso come ierofania. La mistica dell’Uno-vuoto non è proposta quindi come meta ma, semmai, come strumento: “Nel raccoglimento mentale privo di segni la sua mente si rallegra, si placa, si ferma, si libera”; ma il praticante si accorge poi che “anche questo raccoglimento mentale privo di segni è coeffettuato e concepito; e tutto ciò che è coeffettuato e concepito è impermanente, destinato a cessare” (Majjhima Nikaya), per cui si volge alla visione del fenomeno-ierofania alla luce della Verità della Via di mezzo. La calma, la pace in cui la mente si placa e si ferma non sarà dunque la “soluzione” ma soltanto una tappa, un momento al pari di quelli di lotta per l’affermazione della realtà, da collocare entrambi nella consapevolezza che diviene, questa sì, il luogo dove tutto si unifica, il conflitto trasceso, l’Assoluto conciliato col relativo. La mente “si rallegra” e dinamicamente “si placa” nello stupore dell’esistenza e nella consapevolezza dell’esserci (realizzazione dinamica della Vacuità). Secondo la tradizione Tendai, il Buddha ha “aperto i tre e rivelato l’uno, aperto il vicino e rivelato il lontano, aperto il breve e rivelato il lungo”, e Chih-i, con la dottrina delle tre verità, ha stabilito una stretta corrispondenza tra mente-verità e realtà; per cui

·       alla mente calma e concentrata corrisponde la vivente realtà dell’Unità della vita e di noi stessi come noumeno (“la tranquillità della natura ultima di tutte le entità è detta ‘calma’”; verità della Vacuità);

·       la mente ordinaria dice, invece, il fluire della vita, del dolore e del tempo, nella misteriosa e violenta realtà del cibo e del sesso, del nascere e del morire (verità del provvisorio);

·       infine, nel discernimento illuminato della mente della Via di mezzo, che tutto accoglie nella forma e nella parola, sempre insufficienti e sempre nuove, l’inesprimibile si disvela e continuamente si cela, l’eterno gioca a nascondino col provvisorio (“il suo perenne splendore è detto ‘discernimento’”; verità della Via di mezzo).

Se nel pensiero indiano possiamo trovare, come in quello europeo erede della fioritura greca, contrapposizione e inconciliabilità dei contrari, il “dono” che il buddhismo riceve dal pensiero cinese è quello di una diversa visione degli opposti, coesistenti e reversibili, di cui il superamento e la conciliazione non sono prospettati attraverso un processo dialettico, ma attraverso una metamorfosi che ne evidenzia il comune fondamento e la costituzione reciproca. Quando, nella “fluidità” (metafora chiave della descrizione cinese) di un processo, una delle determinazioni giunge al proprio estremo fa emergere la determinazione opposta, già presente al suo interno: yin e yang, com’è noto, “contengono”, rispettivamente, una dose di yang e di yin che emergono nella reversione dell’uno nell’altro, in ragione della loro fondamentale unità. Coerentemente, l’istruzione fondamentale per il praticante sarà: “Segui il provvisorio ed entra nella realizzazione della Vacuità; segui la Vacuità ed entra nel provvisorio; questa è la Via di mezzo”. In altri termini, applicando al pensiero e alla totalità dei possibili oggetti, l’osservazione in quattro fasi, si evidenzierà come dall’estinzione del fenomeno (ad es., pausa post-espiratoria) si  vedrà apparire il fenomeno successivo (ad es., inizio e manifestazione del nuovo respiro), in una continuità priva di fratture, come accade nello scorrere di un liquido. La sostituzione del punto di vista del processo (nella descrizione della Realtà) a quello della metafisica, di quello del Vuoto a quello dell’Essere, riporta le cose al loro fondamento aperto e creativo, restituendo alla vita la libertà e la pienezza della Via di mezzo.

L’invito a vivere nell’unica effettiva realtà del momento plenario del presente (senza rimpianti, rancori, illusorie speranze), con un’attenzione concentrata, non andrà quindi inteso come un totalitarismo dell’immediato, con esclusioni unilaterali, come verrebbe ad essere un vivere in un presente privo di spessore, senza memoria e senza progetto, senza Proust e senza Leonardo: presente come presenza, presenza che (ri)assume in sé ricordo e previsione. Anche la bellezza effimera di un fiore non è priva di “radici” ed è aperta alla promessa del frutto.

Al di là del tempo di pratica formale, ogni attività e ogni azione possono divenire occasioni di pratica e di applicazione di calma e discernimento: dall’osservazione-del e dall’unificazione-col proprio respiro si può così passare all’osservazione-del e all’unificazione-col “respiro” del mondo.

3 commenti:

Xinstalker ha detto...

Sperando di poter leggere numerosi commenti al tuo intervento, mi permetto di aggiungere il mio, discutibile ovviamente. A volte si pensa che il buddhismo offra una soluzione ai dolori del mondo. Che per mezzo della pratica buddhista si possano risolvere le proprie o altrui sofferenze. A coloro che la pensano in questo modo suggerirei caldamente la godibilissima lettura del "Candido" di Voltaire... Io penso che il Buddhismo, nella accezione che qui viene indicata, sia in realtà una matrice che se da una parte consente di identificare i meccanismi con cui diamo significato e viviamo l'inevitabile dolore, dall'altra ci consente proprio per questo una 'maggiore' presenza nel mondo. Non credo che possiamo aspirare di più in questo corpo e in questa vita, a meno che non conserviamo alcune speranze in una eventuale prossima vita. Ciò detto, un altro luogo comune del Buddhismo è che esso rappresenti in realtà qualcosa di nemico della "parola" o delle "lettere". In tal senso mi viene da ricordare una poesia di Ikkyū Sōjun (1394 – 1481) noto maestro zen giapponese:
"Ogni giorno, i monaci esaminano minuziosamente il Dharma e intonano all'infinito dei complicatissimi sutra. Tuttavia prima di fare questo, essi dovrebbero imparare a leggere le lettere d'amore spedite dal vento e dalla pioggia, dalla neve e dalla luna". Ma se consideriamo che lo stesso Ikkyū si dedicò con passione alle emergenti nuove arti giapponesi: la calligrafia, dove le sue opere vennero successivamente molto apprezzate; la poesia, dove studiò con il poeta Sōchō (1448-1532); il teatro Nō, dove strinse rapporti con l'autore Komparu Zenchiku (1405-1468); la Cerimonia del tè, dove collaborò con il monaco Murata Shuko (1427-1502) ai primi canoni di questa disciplina; la pittura, dove frequentò i pittori Bokkei Saiyo (date sconosciute) e Motsurin Shōtō (anche Bokusai, ?-1492) e che fu autore di numerosi trattati buddhisti, tra i quali Bukkigun (La guerra dei buddha e dei demoni), Maka hannya haramita singyō kai (Spiegazione del Sutra del cuore della perfezione di saggezza), Amida hadaka (Amida nudo), Gaikotsu (Scheletri), forse lo stesso Ikkyū non voleva condannare di per sé lo studio o le "lettere" ma, con quella poesia, intendere qualcos'altro, ovvero che quegli studi e quelle pratiche dovevano avere uno scopo, lo sviluppo esistenziale, e non erano fine a se stesse. Se così non fosse, la contraddizione tra la poesia di Ikkyū e la sua stessa vita ci direbbe solo che costui era un furfante. Questo per parlare di Ikkyū come esempio dei presunti silenti maestri "zen". Più generalmente vorrei ricordare di quanto sia "scarna" la letteratura buddhista dei tre canoni:
* il canone pali si compone di "soli" 57 volumi tra discorsi del Buddha e commentari;
* il canone cinese arriva a mala pena a 85 volumi;
* il canone tibetano si ferma a "scarsi" 98 volumi.

E questo solo per parlare delle opere canoniche dei primi secoli...

Effettivamente sono certamente "pochi" volumi per una religione che vorrebbe disprezzare la parola e lo studio... O, forse, se solo paragonati alle opere di altre fedi religiose o scuole filosofiche non sono per niente pochi e coloro che sostengono che il Buddhismo sia nemico delle "lettere" semplicemente credono di sapere ma non sanno cosa sia il Buddhismo. Le mie opinioni espresso in tono un po' polemico ma scherzoso e affettuoso. :-) Cordialità

dimitri ha detto...

Ichinen sanzen "contemplazione della realtà inconcepibile" e vita quotidiana.
Samsara, Grecia, viaggio in pùllman da Salonicco al piccolo paese dove, dopo diversi anni, incontrerò molte persone e, soprattutto, dopo 45 anni un caro amico d'infanzia e prima adolescenza. Nostalgia, ansia, bilanci personali etc.
Il paesaggio cambia velocemente e il Samsara è in piena attività finchè un "pensiero" non lo solleva in aria e lo sospende:
Da tempo immemorabile
hai lasciato x
sei diventato y
e volisopra i mondi
cambiando le tue iniziali
sopra ogni luogo da cui passi
ma,
io,
fratello,
non dimentico,
che apparteniamo
al Mistero degli Alfabeti...
Il Samsara torna sulle ruote del pùllman e riprende a farmi viaggiare nel suo paesaggio verso il piccolo paese; ma qualcosa è cambiato: il mio vissuto (una "presenza" ormai diversa), lo riconosco bene nell'espressione "non soffrire di soffrire".*

* La mente " si rallegra" e dinamicamente "si placa" nello stupore dell'esistenza e nella consapevolezza dell'esserci (intervento di Venturini sul blog 01/10/08: la pratica meditativa)

PanDharma ha detto...

Dalla Creatura Tutto promana,
alla Creatura Tutto ritorna.
Il Fiume non conosce esitazione
nel suo lento e placido scorrere.
Il fulmine esprime la sua potenza in un lampo.
Il Mare ora è quieto, ora è in tempesta.
La montagna silenziosa regna sovrana sul mondo nella sua maestosità e fermezza.
Il fuoco guizza furtivo e salta ora qui ora lì.
Il vento irrefrenabile smuove ogni cosa e s'insinua ovunque.
Il discepolo al Maestro
- Ma come si conoscono tra loro yin e yang?
Il Maestro
- Si inseguono nel Tao
e il discepolo
- Ma si incontrano?
Vi è una parte di yin nello Yang,
vi è una parte di yang nello Yin.
Così l'un principio com-prende l'altro all'interno di sè e coglie la propria essenza nel nucleo del suo opposto e complementare. Tale è l'armonia della Vita.
E il discepolo frustrato ripetè
- Ma si incontrano?
Ed il Maestro serafico
- Si sono già incontrati, si sono già incontrati.
Un abbraccio