lunedì 13 ottobre 2008

Duras#3

M. Duras, Un barrage contre le Pacifique, Paris, Gallimard [Una diga sul Pacifico, tr. it., Torino, Einaudi: attualmente non disponibile]. Pubblicato nel 1950, è stato il primo grande successo della scrittrice (che diverrà autore consacrato con Moderato cantabile e che raggiungerà la notorietà internazionale con Hiroshima mon amour e la gloria con L’amant). Trova qui una prima espressione il mito di fondazione della scrittrice: la famiglia, l’infanzia-adolescenza nell’Indocina francese (negli anni Venti), l’attesa di una vita significativa: tornerà più volte a disfare e rifare la storia per esprimerla in racconti diversi. Qui il raccontro è centrato sulla storia della madre (insegnante, vedova, ossessionata dall’idea di realizzare la coltivazione di una terra che cercherà invano di proteggere dal mare con la costruzione di una diga), figura amata e odiata, narrata attraverso la sequela di fallimenti, deliri di risarcimento, martirio familiare. Accompagnandola fino alla morte (nella realtà avvenuta diversamente e in in altro luogo) la scrittrice ne delinea il destino e porta a unità la sua vita infelice, conferendole la dignità di una figura tragica. Intorno a lei, la figlia (con la quale l’autrice si identifica), il fratello (ribelle, ignorante, passionale), i personaggi minori. Mentre la madre si consuma nella sofferenza, i figli attendono. Un barrage contre le Pacifique è un romanzo dell’attesa (si badi, non della speranza, fuori luogo in un mondo senza trascendenza): qualcosa avverrà, qualcuno arriverà a consentire l’evasione da una realtà soffocante e sordida. Intanto, la fantasia fa la sua parte, sostenuta dalla musica (la canzone Ramona costituisce la colonna sonora del libro, l’inno dell’avvenire e del distacco), dal cinema, dall’automobile: tutto quello che poteva trasportare, l’anima o il corpo, con le ruote o con “i sogni dello schermo, più veri della vita”, tutto ciò che poteva in qualche modo accelerare “la lenta rivoluzione dell’adolescenza, era la felicità”. Joseph, il fratello, trova in una donna matura e ricca il suo riscatto e Suzanne, morta la madre, se ne andrà anche lei dalla “concessione”, verso la città (Saigon), verso una vita che non le promette niente altro che solitudine e libertà, da quella famiglia disgregata e infelice, da fuggire e da rimpiangere. Per questo Marguerite diverrà scrittrice, per ricordare, ritrovare, rivivere. Autobiografia? Dirà in un’intervista che “la storia della mia vita, della vostra vita, non esiste: il romanzo della mia vita, delle nostre vite, sì ma non la storia. È nella ripresa dei tempi da parte dell’immaginario che la vita viene rianimata; niente è vero nella realtà, niente”: la memoria, infatti, rimodella gli eventi passati e il racconto filtra, espone e nasconde.

Tra nouveau roman e romanzo tradizionale, scritto con libertà stilististica e linguistica, con svolgimento lineare e con improvvisi flash-back (o analessi, retrospezioni), il romanzo ha avuto un adattamento cinematografico nel 1958, per la regia di René Clément, ed è prossima l’uscita di un nuovo film, diretto da Rithy Panh, interpretato da Isabelle Huppert, nel ruolo della madre: potrebbe essere una buona occasione per ristampare la traduzione italiana.

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