giovedì 4 settembre 2014

Spiritualità del finito#8/Sul soggetto nel buddhismo e nel cristianesimo

Per approfondire il tema del valore che il soggetto ha nella tradizione buddhista può essere interessante tornare a quando papa Giovanni Paolo II, parlando della salvezza nel buddhismo, rilevava (in Varcare la soglia della speranza (con Vittorio Messori, Milano, Mondadori, 1994, cap. 14) che «sia la tradizione sia i metodi da essa derivati conoscono quasi esclusivamente una soteriologia negativa. L’“illuminazione” sperimentata da Budda si riduce alla convinzione che il mondo è cattivo, che è fonte di male e di sofferenza per l’uomo. Per liberarsi da questo male bisogna liberarsi dal mondo; bisogna spezzare i legami che ci uniscono con la realtà esterna: dunque, i legami esistenti nella nostra costituzione umana, nella nostra psiche e nel nostro corpo. Più ci liberiamo da tali legami, più ci rendiamo indifferenti a quanto è nel mondo, e più ci liberiamo dalla sofferenza, cioè dal male che proviene dal mondo». Richiamandosi poi alla Gaudium et spes (costituzione conciliare nella quale, premesso che «la persona umana, che di natura sua ha assolutamente bisogno d’una vita sociale, è e deve essere principio, soggetto e fine di tutte le istituzioni sociali», § 25, si constata che «cresce la coscienza dell’eminente dignità della persona umana, superiore a tutte le cose e i cui diritti e doveri sono universali e inviolabili. Occorre perciò che sia reso accessibile all'uomo tutto ciò di cui ha bisogno per condurre una vita veramente umana, come il vitto, il vestito, l’abitazione, il diritto a scegliersi liberamente lo stato di vita e a fondare una famiglia, il diritto all’educazione, al lavoro, alla reputazione, al rispetto, alla necessaria informazione, alla possibilità di agire secondo il retto dettato della sua coscienza, alla salvaguardia della vita privata e alla giusta libertà anche in campo religioso», § 26), concludeva che «tra le religioni dell’Estremo Oriente, in particolare il buddismo, e il cristianesimo ci sia un’essenziale differenza nel modo di intendere il mondo», per cui, facendo infine riferimento al documento della Congregazione per la dottrina della fede Su alcuni aspetti della meditazione cristiana, si ricordavano ai fedeli i “pericoli” insiti nelle pratiche buddhiste.
Per comprendere appieno le affermazioni di Karol Wojtyla dopo il suo viaggio in Oriente bisogna ricordare che, ai tempi del Concilio, egli aveva rivolto a Paolo VI un accorato appello affinché fosse emanata una speciale dichiarazione sulla libertà religiosa, che sarebbe stata, come giustamente prevedeva, un grido di battaglia nei confronti dei regimi totalitari, in quanto la rivendicazione della libertà religiosa avrebbe finito per veicolare la richiesta del rispetto di tutti gli altri diritti di libertà. Quella dichiarazione fu, com’è noto, approvata e in essa è detto che «nell'età contemporanea gli esseri umani divengono sempre più consapevoli della propria dignità di persone  e cresce il numero di coloro che esigono di agire di loro iniziativa, esercitando la propria responsabile libertà, mossi dalla coscienza del dovere e non pressati da misure coercitive. Parimenti, gli stessi esseri umani postulano una giuridica delimitazione del potere delle autorità pubbliche, affinché non siano troppo circoscritti i confini alla onesta libertà, tanto delle singole persone, quanto delle associazioni, [poiché] il diritto alla libertà religiosa si fonda realmente sulla stessa dignità della persona umana quale l’hanno fatta conoscere la parola di Dio rivelata e la stessa ragione» (Dignitatis humanae).
E alla Gaudium et spes esplicitamente Giovanni Paolo II si rifaceva nella sua prima enciclica Redemptor Hominis (1979) per fondare sulla base dell’Incarnazione e della Redenzione la dignità dell’uomo, «perché l’uomo — ogni uomo senza eccezione alcuna — è stato redento da Cristo, perché con l’uomo — ciascun uomo senza eccezione alcuna — Cristo è in qualche modo unito, anche quando quell’uomo non è di ciò consapevole» (14). Ma ancor più rilevante, al fine di rimarcare le differenze tra la soteriologia buddhista e quella cristiana, si rivela il discorso — forse non sufficientemente valorizzato — che il papa tenne all’Università di Lublino (9 giu. 1987), nel quale, senza riferirsi al buddhismo o ad altre tradizioni in particolare, egli pronunciava un forte appello in difesa proprio della soggettività. Disse allora il papa: «La soggettività nasce dalla natura stessa dell’essere personale: corrisponde prima di tutto alla dignità della persona umana. È la conferma, la verifica e insieme l’esigenza di questa dignità, sia nella vita personale che in quella collettiva. Gli atenei, fucine di lavoro culturale, operanti secondo una molteplice metodologia, sono chiamati a questo in modo particolare. [...] La società attende dalle sue università il consolidamento della propria soggettività, attende la dimostrazione delle ragioni che la fondano, e dei motivi e delle iniziative, che la servono. [...] Permettete che, a questo punto, io riporti un testo biblico. Certamente esso non ha valore dal punto di vista dei princìpi e dei metodi della scienza empirica. Possiede invece un’importanza simbolica. Sappiamo che “simbolo” vuol dire segno di convergenza, di incontro e di reciproca adesione di dati elementi. Penso che il testo del Libro della Genesi, che riferirò — senza pretese di esattezza dal punto di vista delle scienze empiriche — possieda anche un proprio, specifico significato per l’intelletto stesso che ricerca la verità sull’uomo. Ecco il passo: “Allora il Signore Dio plasmò dal suolo ogni sorta di bestie selvatiche e tutti gli uccelli del cielo e li condusse all’uomo, per vedere come li avrebbe chiamati: in qualunque modo l’uomo avesse chiamato ognuno degli esseri viventi, quello doveva essere il suo nome. Così l’uomo impose nomi a tutto il bestiame, a tutti gli uccelli del cielo e a tutte le bestie selvatiche, ma l’uomo non trovò un aiuto che gli fosse simile” (Gen 2, 19-20). Ecco, indipendentemente da ciò che cogliamo con il metodo empirico (o piuttosto con molti metodi) sul tema dell’“inizio”, il testo sopracitato sembra possedere una formidabile importanza “simbolica”. Anzi, in un certo senso raggiunge le radici stesse del problema: “il posto dell’uomo nel cosmo”. Si potrebbe anche dire che costituisce una certa espressione della convergenza di tutto ciò che contengono in sé le ricerche condotte coi metodi delle scienze empiriche. Tutte infatti, nella ricerca delle tracce originarie dell’uomo, si lasciano nel contempo guidare da un certo fondamentale concetto dell’uomo. Possiedono una risposta elementare almeno all’interrogativo: in che cosa l’uomo si distingue dagli altri esseri nel cosmo visibile. L’uomo, “sin dall’inizio”, distingue se stesso da tutto il cosmo visibile, in particolare dal mondo degli esseri in certo senso a sé più vicini. Essi tutti sono per lui un oggetto. Lui solo rimane il soggetto in mezzo a loro. Lo stesso Libro della Genesi parla dell’uomo come di un essere creato ad immagine di Dio e a sua somiglianza. Anzi, alla luce del passo sopracitato è al tempo stesso chiaro che quella soggettività dell’uomo si collega in modo essenziale alla conoscenza. L’uomo è soggetto in mezzo al mondo degli oggetti, perché egli è in grado di obiettivare in modo conoscitivo tutto ciò che lo circonda. Infatti, mediante il proprio intelletto egli è “per natura” orientato verso la verità. Nella verità è contenuta la sorgente della trascendenza dell’uomo nei riguardi del cosmo in cui vive».
Le valutazioni sul buddhismo espresse da Giovanni Paolo II suscitarono disappunto e proteste da parte dei buddhisti della tradizione Hinayana ma, di fronte alla “riduzione” del soggetto auspicata da questa scuola in ragione della visione di esso come pura illusorietà e della stretta connessione tra liberazione dalla sofferenza e “mortificazione” dell’ego,  l’assunto etico “occidentale” del valore della centralità della persona, con le conseguenti promozione e difesa del soggetto, della sua autonomia, dei suoi diritti-doveri inviolabili e non negoziabili, dobbiamo osservare che trova proprio nella concezione cristiana della persona una delle sue insopprimibili radici. Le  differenze  e opposizioni tra queste due visioni sono state, di recente, in nome di un discutibile concordismo interreligioso, fin troppo sottaciute, ma non va ignorato che il giudizio espresso da papa Wojtyla non è dissimile da quello formulato da buddhisti della tradizione Mahayana nei confronti della visione della scuola Theravada o Hinayana. «Poiché il Buddhismo Hinayana insegna», leggiamo ad es. nel Dizionario del Buddismo della SGK (Milano, Esperia, 2002, p. 512), «che lo scopo ultimo della pratica può essere raggiunto soltanto al momento della morte, è stato descritto come l’insegnamento del “ridurre in corpo in cenere e annientare la coscienza”». Inoltre, vorrei ricordare che non sono mancate prese di posizione come quella, ad es., autorevolmente espressa (nel seminario promosso nel 1983, dal Pontificio istituto missioni estere e dall’Abbazia di Praglia, atti pubblicati col tit. Liberaci dal male, Bologna, EMI, 1983) dallo studioso Mario Piantelli che affermava: «Mentre la spiritualità ascetica del Cristianesimo, in Oriente e in Occidente, durante i due millenni trascorsi ha proceduto in sostanza (pur sullo sfondo di una metafisica diversa) per lo stesso sentiero di quella buddhistica, la crescente importanza assunta dal concetto di “persona” come centro di valori nei tempi più recenti e la correlativa “mondanizzazione” della visione cristiana — con i suoi agganci biblici — ha indubbiamente allontanato le due spiritualità, che oggi sono sotto più di un aspetto agli antipodi».

La distanza tra queste due millenarie tradizioni è, dunque, incolmabile? Vorrei non crederlo e, come da tempo vado sostenendo, ritengo che nel buddhismo della tradizione Mahayana (e in particolare nell’insegnamento della scuola Tiantai/Tendai), sia possibile trovare, a fronte della “mortificazione” Hinayana, tutti i presupposti per sostenere una “intensificazione” e valorizzazione del soggetto che, pur se non ancora sviluppata in modo paragonabile alla forte affermazione presente nella tradizione cristiana, possa costituire proprio uno dei caratteri maggiormente caratterizzanti la espressione europea del messaggio dell’Illuminato e fornire, al tempo stesso, diverse e forse più valide basi al dialogo cristiano-buddhista.

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