Molti
anni fa l’Accademia pontificia delle scienze promosse nella sua sede
all’interno della Città del vaticano, una Semaine
d’étude sur Cerveau et experience consciente, in cui furono convocati i più
illustri rappresentanti della ricerca sul tema. Addetto alla Segreteria del
Convegno (guidata dal Cancelliere dell’Accademia, prof. Pietro Salviucci,
personaggio di una vivente tradizione papalina belliana), fu per me, giovane
assistente universitario, una grande occasione per “avvicinare” tanti premi
Nobel, accademici, ricercatori. Tra essi era anche il prof. Donad MacCrimmon
MacKay, professore di Communication all’Università di Keele (Stafforshire, G.
B.), matematico e informatico che in quegli anni aveva offerto una interessante
impostazione della eterna questione della libertà e predittività del
comportamento umano alla luce della comunicazione tra il soggetto osservante e
il soggetto “descritto”, come nella sua memoria su On the Logical Indeterminacy of a Free Choice. In parole molto
(spero non troppo) semplici, l’argomentazione di McKay era questa: se un osservatore
conoscesse in maniera “completa” lo stato psicofisiologico di un individuo nel
momento T1 potrebbe prevedere in modo sicuro quale sarà il comportamento del
soggetto nel momento T2. Tutto bene, ma se la previsione fatta dall’osservatore
verrà comunicata al soggetto osservato la perturbazione che questa provocherà
renderà invalida la previsione che andrà aggiornata sulla base delle
imprevedibili risposte alla comunicazione che il soggetto esibirà e così via in
un regresso all’infinito che porterà alla detta “logical indeterminacy of a
free choice” (l’argomentazione si
complica, ovviamente, se consideriamo, in partenza, la complessità e gli
aspetti quantici e caotici della nostra biochimica e se applichiamo il percorso
indicato da MacKay all’interno del processo di autoconoscenza e
autorappresentazione che un soggetto fa di sé stesso).
Pensavo,
per analogia, all’argomento di MacKay in questi giorni di campagna elettorale, durante
i quali viene proibita la divulgazione dei sondaggi che pur vengono fatti, ma debbono
essere “consumati” in segreto. I sondaggisti “prevedono”, infatti, quale potrà
essere il comportamento di voto del loro campione, ma se questo verrà
comunicato finirà per perturbare il comportamento dei votanti, influenzando anche
i movimenti dei raggruppamenti: quindi, non si ritiene opportuno comunicare i
risultati dei sondaggi. Infatti, perché sprecare il voto per una lista che non
supererà lo sbarramento o come muoversi per “inseguire” elettori il cui comportamento
potrebbe mettere in discussione un’alleanza fatta con “questo” quando sarebbe
più utile farla con “quello”, e via enumerando. Se i risultati venissero comunicati il sondaggista si verrebbe poi a trovare in una situazione sempre nuova
e dovrebbe rifare il sondaggio tante
volte quante saranno state le comunicazioni effettuate.
In
conclusione, conoscere può significare rendere impossibile la conoscenza se
l’oggetto della conoscenza è alterato dal processo del conoscere. Questo ce lo
hanno spiegato l’indeterminismo e MacKay, ma chi avrebbe sospettato che i
politici che hanno emanato quel divieto fossero così raffinati e attenti gnoseologi?