giovedì 27 settembre 2012

Quel che resta del bushido/Schermaglie#26


Il romanzo Quel che resta del giorno, racconta in forma di diario la storia di un maggiordomo inglese, Mr Stevens, e del suo lavoro a Darlington Hall, prima al servizio di Lord Darlington e poi dell’americano Mr Farraday. Sul finire dell'estate del 1956, Mr Stevens sente il bisogno di una pausa e, su proposta del suo stesso datore di lavoro, fa un breve viaggio nella campagna inglese, sperando di rivedere Miss Kenton, molti anni prima governante a Darlington Hall, per esplorare la sua disponibilità a tornare a lavorarvi.
L’ambiente inglese e la figura di un impeccabile maggiordomo sono per Ishiguro Kazuo, autore giapponese trapiantato in Gran Bretagna, il contesto e le metafore adatti per affrontare i temi della dignità, della devozione, del sacrificio della propria vita privata al fine di svolgere un compito “più importante”, tutti elementi fondamentali della cultura giapponese, di cui l’A. sembra voler saggiare la possibile coerenza con un ambiete extra-nipponico. Il maggiordomo Stevens nel suo breve viaggio-vacanza, anche questo una metafora, si concede un tempo psicologico per ripensare alla sua vita, alle rinunce, al significato di fedeltà e dedizione quando si rivelino mal indirizzate.
Cosa rende “grande”un maggiordomo? In che consiste la sua dignità? Questa domanda attraversa un po’ tutto il libro e le risposte che Mr Stevens si dà sono sostanzialmente due: la prima fa coincidere la dignità con la capacità di non abbandonare mai il ruolo professionale, non facendosi «sconvolgere da avvenimenti esterni, per quanto sorprendenti, allarmanti o irritanti questi possano essere», non lasciando mai emergere la dimensione privata e portando su di sé la «professionalità allo stesso modo in cui un vero gentiluomo porta l’abito che indossa: e cioè senza consentire a dei mascalzoni o alle circostanze di strapparglielo di dosso davanti agli occhi di tutti; sarà egli stesso ad abbandonarlo quando stabilirà di farlo e soltanto allora, cosa che invariabilmente accadrà quando egli sarà rigorosamente solo» (p. 54). Per questo, in un’altra pagina, egli dirà, senza che l’interlocutore possa effettivamente comprenderlo, «ho il sospetto che sostanzialmente consista nel non togliersi i panni di dosso in pubblico». Egli prende anche in esame i criteri adottati dalla Hayes Society (che «si vantava di accogliere tra i suoi membri maggiordomi che fossero “solo di primissimo rango”») per ammettere professionisti che mostrassero «quella dignità all’altezza della posizione che si occupa», e qui apprendiamo che un prerequisito fondamentale era che «l’aspirante fosse aggregato ad una famiglia illustre”». Per Mr Stevens e alcuni suoi colleghi (di una «generazione dotata di molto maggiore idealismo» delle precedenti) il riferimento era «lo status morale di coloro presso i quali prestavano la loro opera» (p. 138) e non la collocazione nella scala sociale di quella famiglia. Di conseguenza, il prestigio professionale doveva poggiare sul valore morale del padrone e questo poteva giustificare la totale delega su modi e mezzi attraverso i quali questo svolgeva la sua opera al servizio dell’umanità. Così ciascuno di quei grandi ma umili maggiordomi, col proprio servizio, dice Mr Stevens, «nutriva il desiderio di offrire il suo piccolo contributo alla creazione di un mondo migliore e si rendeva conto che […] il mezzo più sicuro per fare una cosa del genere era quello di entrare al servizio dei grandi personaggi del nostro tempo, alle cui mani era stata affidata la civiltà» (p. 140 s). Qui vediamo messo in luce il fondamento del sistema imperiale e sociale giapponese, in cui ciascuno dà il contributo che gli è proprio e questo acquista significato nella misura in cui partecipa alla realizzazione di un progetto, affidata a chi è al vertice della piramide sociale.
Ma negli incontri con “gente comune” che Mr Stevens fa nel corso del viaggio (un gruppo di abitanti di un villaggio in cui il maggiordomo è costretto a sostare), vediamo affiorare una seconda, diversa risposta in cui mi sembra di scorgere il tentativo di esprimersi di una nuova mentalità giapponese che si interroga su quel sistema, ne scorge i limiti e vorrebbe, pur senza distruggerlo, modificarlo. Nelle conversazioni si affacciano nuovi argomenti, si prospetta una nuova definizione di dignità valida per tutti (essere liberi di esprimere la propria opinione e di eleggere dei rappresentanti), si presentano nuovi criteri di partecipazione alla grande società e sono messi in discussione modalità e limiti della delega, dato che spesso i grandi progetti si rivelano disatrosi (esperienza giapponese della seconda guerra mondiale!). Sembrerebbe giusto, ma la democrazia non può ignorare che la “gente comune” non ha idee chiare e competenze sufficienti per affrontare i problemi della nazione e quindi deve delegare a chi ha maggiori capacità la responsabilità delle scelte. Il libro lascia aperti gli interrogativi e, pur nella consapevolezza degli errori commessi da Lord Darlington a causa delle sue simpatie verso i nazisti negli anni Trenta, Mr Stevens rimane convinto che quegli errori siano stati compiuti nella più grande buonafede e nella limpida convinzione di stare operando, in quel momento e in quel modo, per il bene comune. Se si assume un atteggiamento critico e scontento «nei confronti di un padrone», riflette Mr Stevens, non è «letteralmente possibile […] al tempo stesso fornire un buon servizio», per cui la morale che ne segue è che quando si ripone la propria fiducia in qualcuno che riteniamo «nobile e degno di ammirazione», e ci si consacra al suo servizio, il criterio non sarà rappresentato da bontà e successo dei progetti, ma dal fatto di aver agito ritenendo di operare sempre per il meglio. Così stando le cose, il criterio diviene il leader stesso (in Giappone era l’Imperatore) e agli altri resta la soddisfazione di offrire il proprio contributo a qualcosa di grande. È l’etica della completa dedizione, il codice morale del bushido (la via del guerriero), di cui si tenta una riattualizzazione. «Se alcuni di noi sono pronti a sacrificare molto, nella propria vita, al fine di perseguire tali aspirazioni, ciò sicuramente rappresenta in sé, quali che siano i risultati che ne derivano, motivo di orgoglio e di felicità» (p. 293). Il libro non offre soluzioni, né è certo “obbligato” a farlo!, ma non prende in considerazione il fatto che le democrazie occidentali avevano individuato una risposta al conflitto tra democrazia diretta e assolutismo (che possono rivelarsi entrambi rovinosi), una soluzione “mediana”, contando su partiti politici capaci di svolgere la funzione di “intellettuale collettivo”: il “popolo” esprime dei bisogni, manifesta degli interessi, esercita il controllo delle élite, ma — sulla base di un rapporto di fiducia che non deve essere tradito — deve lasciare a chi ha le giuste competenze il compito della mediazione e la scelta dei mezzi più adeguati per affrontare i problemi di una nazione o addirittura dell’intera umanità. Oggi la crisi della rappresentanza ha drammaticamente riaperto tutti problemi della direzione politica, in un vuoto che favorisce, da un lato, corruzione, dilettantismi, caccia al potere e ai privilegi, e, dall’altro, le espressioni del più individualistico e localistico populismo, per cui le domande del libro (scritto circa 25 anni fa!) sono tornate brucianti per noi che stiamo vivendo l’erosione generale di valori e norme, e la difficile individuazione di leadership credibili verso le quali orientare quei bisogni di autolimitazione, dedizione, obbedienza che — come aveva ben visto Fromm — fanno parte dei bisogni autenticamente umani. In una democrazia contraffatta anche l’etica del bushido risulta quindi compromessa e impraticabile: se l’obbedienza irragionevole non è più una virtù potendosi tramutare in complicità, la cosiddetta democrazia diretta si rivela attrettanto irragionevole, caricando l’individuo della responsabilità di tutte le scelte, anche di quelle in cui sa di non avere le giuste competenze per decidere.
Nel libro, infine, viene toccato un altro tema, connesso al primo, ma anche più generale, quello del bilancio di vita che, dolorosamente, nell’età avanzata può portare a domandarsi: «Era questa la mia vita?», per magari concludere, con Miss Kenton, «“Che terribile errore è stata la mia vita”. E allora si è indotti a pensare ad una vita diversa, una vita migliore che si sarebbe potuto avere» (p. 286). Rinunce, sacrifici, illusioni: quanti “errori”! In sede di bilancio ci si accorge che forse nessuna vita si è vissuta come si desiderava vivere. Ma l’orologio non si può portare indietro, gli “errori” non si possono più “correggere” e forse va spezzata la catena (illusoria) che lega libertà, responsabilità e colpa. E cosa va considerato “errore”? L’A. fa dire, a uno sconosciuto che Mr Stevens incontra dopo aver lasciato la sua vecchia collega di lavoro, che «la sera è la parte più bella della giornata. Hai concluso una giornata di lavoro e adesso puoi sederti ed essere felice». Così, pur «accorgendosi che le nostre vite non sono state proprio quello che avremmo desiderato» (p. 292), si può cercare di trarre il meglio da quel che rimane da vivere. Ma, probabilmente, tutto questo non basta, perché si continuerà con altri “errori”, delusioni, inganni e autoinganni, cosa che mi fa tornare alla mente un pensiero di R. Badinter (docente, avvocato, saggista), che esprimeva la tenera “speranza” che, quando la sua anima fosse giunta alle porte del Paradiso per incontrare il Signore del mondo, questo gli potesse dire: «Hai fatto quel che potevi: entra!». Quell’incontro probabilmente non lo avremo mai e allora sta a noi costruire, qui, con quelle che chiamiamo “le nostre forze”, un equilibrio accettabile tra disimpegno assolutorio («è andata com’è andata, ma non è dipeso da me») e mortificazione colpevolizzante («è tutta colpa mia»): ancora un invito alla difficile pratica della Via di mezzo?
Nel 1993 il regista James Ivory ha realizzato una trasposizione cinematografica di Quel che resta del giorno non meno pregevole del romanzo, con le eccellenti interpretazioni di Anthony Hopkins ed Emma Thompson. Vorrei ricordare anche che, sul tema del bushido oggi in Occidente, nel 1999 uscì un altro notevole e drammatico film: Gost Dog-Il codice del samurai, di Jim Jarmusch.

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