sabato 7 aprile 2012

Vivere di sacro?

In margine alla mostra Tiziano e il paesaggio moderno.


«La consapevolezza di un mondo reale e significativo è intimamente connessa alla esperienza del sacro ed attraverso tale esperienza lo spirito umano ha afferrato la differenza tra ciò che si rivela reale, potente, significativo e ciò che non lo è, vale a dire il caotico e pericoloso flusso di cose, le loro fortuite apparizioni e sparizioni prive di significato. […] Il  “sacro” è un elemento strutturale della coscienza, e non uno stadio della sua storia. Un mondo pieno di significato — e l’uomo non può vivere nel caos — è il risultato di un processo dialettico che può essere definito come la manifestazione del sacro. La vita umana si carica di significato attraverso l’imitazione di modelli paradigmatici rivelati da esseri soprannaturali […] Ai più arcaici livelli di cultura, il vivere come essere umano è un fatto religioso in sé stesso, perché il nutrirsi, la vita sessuale e il lavorare [educazione] hanno un valore sacramentale». Così Eliade (in La nostalgia delle origini, p. 7 s.). Prima ancora che “salvezza” dal dolore e dalla morte le religioni si mostrano donatrici di senso, ovvero sono apparse capaci di offrire una forma più sottile e profonda di salvezza, perché «la mancanza di significato impedisce la pienezza della vita ed è pertanto equivalente alla malattia. Il significato rende molte cose sopportabili, forse tutto» (Jung).
Le religioni hanno dato alle diverse comunità umane delle descrizioni, sostanzialmente in forma di racconti (miti), di quel “mondo reale e significativo” (“totalmente altro” di fronte al mondo fenomenico finito) e, soprattutto, offerto dei mezzi (percorsi, vie di accesso, stili di vita, pratiche) per mettersi in rapporto con quel mondo altro e vivere “altrimenti”. Essere in rapporto significherà, individuare la giusta misura non solo  di prossimità, ma anche di distanza (di spazio, tempo, condotta), perché «in tutta la storia religiosa dell’umanità», scrive ancora Eliade, «persiste, come una maledizione, questa discontinuità della sperimentazione del sacro. Nessun uomo può rimanere ininterrottamente nella sacralità. Perfino il sacerdote si crea una condizione spirituale del tutto particolare, quando compie un rituale o un mistero — e poi ritorna al suo stato di tutti i giorni, profano. Il “sacro”, essendo totalmente diverso dal profano, non può essere sopportato dall’uomo in continuità. In alcuni testi indiani si dice che il brahmano che “non discende per tempo dallo stato sovrumano che gli crea il sacrificio”, è ucciso sul posto — è ucciso proprio dalla forza sacra che la sua povera natura creata, limitata non può sopportare» (Il mito della reintegrazione, p. 88). Possiamo, quindi, leggere una serie di “divieti”, imposti dalle religioni, come indicazioni protettive da un “eccesso” di (contatto col) sacro che non risulta compatibile coi limiti della condizione umana immersa nel finito.
Vari sono gli esempi che sottolineano la temerarietà o hýbris presente nell’entrare nella particolare sfera di energia del sacro venendo meno alle norme di prudente separazione, temerarietà pesantemente punita anche quando c’è error e non scelus, essendo la trasgressione commessa inconsapevolemnte. Nella Torah (II Sam 6, 6-8) si racconta di Uzzà che stese la mano verso l’arca e vi si appoggiò perché i buoi la facevano piegare e di come l’ira del Signore si accese contro Uzzà: «Elohîm lo percosse per la trasgressione. Egli morì sul posto, presso l’arca di Elohîm». Davide si rattristò per il fatto che il Signore si era scagliato con tale impeto contro Uzzà. Un altro episodio riguarda i figli di Aronne (Lev 10, 1-2) che «offrirono davanti al Signore un fuoco illegittimo, che il Signore non aveva loro ordinato. Ma il fuoco si staccò dal Signore e li divorò e morirono così davanti al Signore».
Il Levitico (cap. 18) dà una serie dettagliata di proibizioni sessuali legate a visione e contatto, come le seguenti: «Non recherai oltraggio a tuo padre avendo rapporti con tua madre: è tua madre; non scoprirai la sua nudità. Non scoprirai la nudità della tua matrigna; è la nudità di tuo padre. Non scoprirai la nudità di tua sorella, figlia di tuo padre o figlia di tua madre, sia nata in casa o fuori. Non scoprirai la nudità della figlia di tuo figlio o della figlia di tua figlia, perché è la tua propria nudità. Non scoprirai la nudità della figlia della tua matrigna, generata nella tua casa: è tua sorella. Non scoprirai la nudità della sorella di tuo padre; è carne di tuo padre. Non scoprirai la nudità della sorella di tua madre, perché è carne di tua madre. Non scoprirai la nudità del fratello di tuo padre, cioè non ti accosterai alla sua moglie: è tua zia. Non scoprirai la nudità di tua nuora: è la moglie di tuo figlio; non scoprirai la sua nudità. Non scoprirai la nudità di tua cognata: è la nudità di tuo fratello.
 Non scoprirai la nudità di una donna e di sua figlia; né prenderai la figlia di suo figlio, né la figlia di sua figlia per scoprirne la nudità: sono parenti carnali: è un'infamia».
Si tratta di divieti legati alle relazioni di parentela e alle origini, e quindi al “pericolo” (e, quindi, al tabù) dell’incesto. Nel nostro sapere c’è infatti un punto cieco, un non-sapere, relativo all’origine, connesso al mistero della congiunzione, momento sacro di non-dualità, coniunxio oppositorum dei sessi dotata del potere magico di “estrarre” una nuova vita dall’abisso della latenza prenatale, un mistero che non può essere rivelato e potrebbe essere conosciuto ripercorrendolo incestuosamente. Nella proibizione dell’incesto troviamo sommate regole di convivenza sociale e divieti di contatto col sacro, e riandando al mito e alla tragedia (drammatizzazione del mito) di Edipo siamo di fronte a una tragedia che offre molte possibilità interpretative del divieto. Edipo, infatti, è accecato dalla rivelazione della natura della sua relazioni con Giocasta; con la “nudità” di sua madre ha visto ciò che non si doveva vedere; nella consapevolezza dell’incesto compiuto, scopre di aver vissuto la coincidentia oppositorum, il sacro nel sesso che non gli consente più una vita ordinaria.  Il sole, il sesso, la morte, il sacro non possono essere visti “a occhio nudo” se non vogliamo rimanerne accecati, come è accaduto a Edipo che, superato il limite del sapere e “visto il Tutto”, non avrebbe avuto niente altro da vedere, perché quel che avrebbe potuto ancora vedere sarebbe stata ormai una falsa visione di meri simulacri: continuare a vivere nel determinato non poteva significare per lui che percorrere un cammino di espiazione (quello che troviamo, infatti, nell'Edipo a Colono che rappresenta il suo divenire, per questo, un personaggio speciale, capace di portare beneficio e santificazione).
Altro caso di hýbris da visione che il mondo classico ci presenta è quello di Atteone (v. Callimaco, Ovidio, Nonno di Panopoli), punito con la trasformazione in cervo per aver visto Artemide nuda, dea che non gli era consentito vedere.

Dumque ibi perluitur solita Titania lympha,
ecce nepos Cadmi dilata parte laborum
per nemus ignotum non certis passibus errans
pervenit in lucum: sic illum fata ferebant.
Qui simul intravit rorantia fontibus antra,
sicut erant nudae, viso sua pectora nymphae
percussere viro, suitisque ululatibus omne
implevere nemus circumfusaeque Dianam 
corporibus texere suis; tamen altior illis
ipsa dea est collooque tenus supereminet omnes.
Qui color infectis adversi solis ab ictu
nubibus esse solet aut purpureae Aurorae,
is fuit in vultu visae sine veste Dianae.

[Mentre là dentro ne vanno come sempre irrorando la figlia del Titano, ecco giungere al bosco il nipote di Cadmo, che ha smesso ogni traffico e ha errato con passi malcerti per forre a lui sconosciute, seguendo la guida del fato. Non s’era ancora affacciato alla grotta stillante di spruzzi che, nude com’erano, le ninfe alla vista di un uomo si batterono il petto e riempirono il bosco di grida stringendosi intorno a Diana e cercando di colpirla col corpo; ma più alta di loro è la dea, di una testa le supera tutte. L’identica tinta che sempre colora le nuvole colpite dai raggi del sole o l’aurora di porpora comparve sul volto di Diana, vista così senza vesti (tr. it. di Ludovica Koch)].

Nipote del titano Coeo, quindi possiamo dire dotata di un doppio potere divino, arcaico e recente, mostra un rossore espressione più di ira che di virginale modestia e infligge una tremenda punizione ad Anteo, benché (come per Edipo) la sua condotta sia priva di scelus (essendo guidato dal fato: sic illum fata ferebant).
Le religioni hanno, dunque, stabilito confini per difenderci dall’eccesso di sacro, ma la modernità considera ormai arcaismi i divieti biblici, la psicoanalisi ha visto in Edipo “il nostro eroe” (nelle fantasie edipiche egli è quello che ciascuno avrebbe voluto essere) e nella tela di Tiziano (Mostra Tiziano e il paesaggio moderno, Milano: 16/02/2012-20/05/2012) sembra potersi leggere più che la punizione di chi ha osato spiare ciò che deve restare occulto la felice condizione di chi, almeno per un istante senza tempo, ha potuto godere, costi quel che costi, la contemplazione della divina bellezza. Come dirà Baudelaire: «Che importa l’eternità della dannazione a chi ha trovato in un istante l’infinito della gioia?»

5 commenti:

Anonimo ha detto...

Eccellente come al solito! Grazie! xinstalker

CIP ha detto...

Bellissimo. un altro passo verso l'infinita! CIP

Anonimo ha detto...

Il tema è nato perché Benveniste, Burkert, Bremmer sostengono che i Greci non posseggono una dimensione di laicità ovvero di profano. Così, molto recentemente, Gabriella Pironti: «i Greci ignorano il concetto di laicità e non conoscono quindi una separazione netta tra ciò che riguarda esclusivamente la sfera divina dal mondo degli uomini. Non esiste insomma nella Grecia antica, un sacro che si opponga al profano».
Molto correttamente Riccardo Venturini ha ricordato la lezione di Eliade proprio sulla nozione di sacro/profano evidenziando, a titolo esemplificativo, la vicenda di Atteone, il quale per aver guardato Artemide perde la vita. Più sacro (divino) che si 'oppone' al profano (non divino quindi umano) di così….
Ho congetturato quindi che in Grecia, come a Roma, vi sia una terza dimensione oltre al sacro/profano ovvero il “santo”. Se il termine greco hósios (ὅσιος) non è certamente “profano” (come ci ricorda e dimostra Benveniste) non è neanche però “sacro”.
Presupponevo quindi che l’alveo greco tendesse a portare tutto l’umano nella dimensione dell’ hósios inteso come “santo” e non dello hieros ovvero del “sacro” come sembrerebbe fare frettolosamente la Pironti. Per dimostrare questo occorreva qualche fonte attendibile che procedesse per accostare il termine hósios al termine latino sanctus perché questo né Benveniste (che correttamente distingue in ambito romano il sakros/sanctus) né gli altri lo fanno.
Bene l’ho trovata… si tratta del VI paragrafo del II capitolo di una, a questo punto, fondamentale opera Károly Kerényi Religione antica. In questa sede Kerényi sostiene che «Il confronto tra l’hosiotes e il concetto romano di sanctitas è naturale e molto istruttivo».
Ancora
«Viene definito hosion non solo l’uomo che conduce una “vita pura”, bensì anche ogni altra realtà considerata dal punto di vista della purezza: ad esempio un luogo dove accade qualcosa che, pur essendo lecita in base alle leggi non scritte della vita, sarebbe tuttavia proibita secondo le leggi di un’esigenza di purezza rigorosamente religiosa. Ogni edificio statale non espressamente consacrato come santuario, hieron, apparteneva agli hosia. L’hosion occupa dunque chiaramente una posizione intermedia fra lo hieron e il totalmente profano. Una scissione della vita antica –qui il sacro, là il profano- è del tutto impossibile. »
Le considerazioni successive di Kerényi sono ulteriormente istruttive.
Per ora mi fermo qui a studiare e soprattutto a pensare. Vorrei sapere cosa pensi maestro di questa ulteriore dimensione, quello della santità forse poco indagata in questi ambiti.
E collegare questa “santità”, che non è profana ma nemmeno sacra, comunque umana, ad un nuovo tema quello dell’umanesimo in effetti “La nostalgia delle origini” di Eliade ha come primo titolo “Un nuovo umanesimo”… ma come non dimenticare la fondamentale lezione di Heidegger su questo tema?
Beh per non confondere e non confondermi mi fermo per ora qui.
Xinstalker

Anonimo ha detto...

Mi riallaccio a quanto scrivi all'inizio del tuo intervento: "Prima ancora che “salvezza” dal dolore e dalla morte le religioni si mostrano donatrici di senso, ovvero sono apparse capaci di offrire una forma più sottile e profonda di salvezza, perché «la mancanza di significato impedisce la pienezza della vita ed è pertanto equivalente alla malattia. Il significato rende molte cose sopportabili, forse tutto» (Jung)." E mi chiedo (ti chiedo), mentre continuo a litigare con una lettura suggerita di cui appena possibile ti dirò ed emergo da quella dei quotidiani (esperienza oramai devastante): ma non era forse meglio allora, quando il sacro era "tra noi" a dare senso alle nostre caduche esistenze, piuttosto che oggi, in questa "modernità" che ha perso il contatto con il sacro, che, nella lotta ostinata condotta nei secoli contro le "superistizioni" ha finito col gettare il bimbo insieme all'acqua sporca (negando la sacralità stessa dell'essere umano, e intendo con questo anche - e non solo - quanto tu scrivi a proposito del "momento sacro di non-dualità, coniunxio oppositorum dotata del potere magico di “estrarre” una nuova vita dall’abisso della latenza prenatale")? Il dubbio sorge a chi è perennemente alla ricerca di un senso. E lo cerca qui e ora, non solo (e non tanto) per il momento in cui l'aria dei polmoni sarà stata esplulsa per l'ultima volta.
Comunque grazie
Alessandra

Riccardo ha detto...

Premesso che occorre sempre umiltà e delicatezza nel trattare questi temi, quel che posso rispondere è che c’è una storia della spiritualità umana e delle religioni, e che anche i racconti (miti) della nostra esperienza del sacro sono nel tempo: dunque impermanenti e legati a contesti. Con la differenziazione sociale, la religione si è separata dal resto della vita sociale e l’analisi del fenomeno sociale totale è stato rimpiazzato dalla dialettica tra istituzioni divenute autonome (la religiosa al pari delle altre), agenti e reagenti le une sulle altre. Le religioni offrono alle culture il significato ultimo, le culture dànno alle religioni il linguaggio. Quando un liguaggio, un sistema di simboli condiviso, risulta inattuale o estraneo, perché non esprime bisogni, paure, visioni, quel mito non si può più recuperare o non è utilizzabile (possiamo essere ora neo-pagani o qui shintoisti senza essere ridicoli?). Dobbiamo pertanto riflettere su quale sia il mito della nostra modernità (nostra perché ci sono molte modernità e la “nostra” sembra caratterizzarsi anche per contenere al suo interno una dimensione di anti-modernità), mito spesso implicito, identificabile nel mito della demitizzazione. Questo mito, che ha occultato il sacro (nel nostro inconscio collettivo) e lo ha camuffato nelle mistiche politiche, nell’escatologia del comunismo, nella liberazione sessuale, nella nostalgia di paradiso delle correnti dell’ecologismo neoromantico, etc., racconta la lunga guerra di indipendenza dal Cosmo sacro, cominciata con la “caduta” di Adamo o la separazione a Mecone e compiutasi con l’Illuminismo. La domanda si trasforma allora nel quesito circa la possibilità, per l’attuale uomo desacralizzato, di costruire ed esprimere, col liguaggio della modernità, una religione di tipo nuovo, che lo riporti, continuando a godere/soffrire di questa esistenza storica, alla Totalità prima, al di là dal mondo e al di là dell’al di là del mondo, cioè qui, nel punto cieco della coscienza, che i mistici d’ogni tempo hanno cercato di vedere non vedendo. Investighiamoli, ispezioniamo miti e religioni, dalla Grecia all’India senza inseguire più gli dèi che se ne sono andati; viviamo il lungo silenzio dell’assenza, della libertà e della solitudine, l’orecchio teso a qualche nuovo flebile suono del non-differenziato, immersi nel caleidoscopio e nei racconti di questo mondo che sappiamo in-esistente, pur senza interrompere mai gli sforzi da fare per salvarlo.