domenica 5 febbraio 2012

Due medici: in "Colpo di Stato" (Maupassant) e "La peste" (Camus)

Nell’anno del disastro e dell’umiliazione di Sedan (1870), in tutta la Francia «si giocava ai soldatini da un capo all’altro del Paese» e cominciava la «follia durata fin dopo la Comune». Nella cittadina di Canneville, dove le notizie tardano ad arrivare e ancora non si sa nulla della proclamazione delle Repubblica, una coppia di due vecchi contadini si era recata dal medico per problemi di vene varicose («il marito che soffriva di varici da sette anni aveva aspettato che le avesse anche sua moglie per andare dal dottore») inizia a raccontare «È principiato proprio con le formiche che mi camminavano sulle gambe» proprio quando arriva il postino col giornale. Il medico, un «omaccione sanguigno, capo del partito repubblicano del circondario» e tipico esemplare della gretta ed egoistica mediocrità dei borghesi odiati da Maupassant, nella sua eccitazione non vuole dare più ascolto ai pazienti, che caccia in malo modo, per abbandonarsi a una sorta di recita rivoluzionaria, ora che per lui il mondo è cambiato, tutto è risolto, e può gridare agli scettici contadini («che lo guardavano senza che nessuna luce di gloria brillasse nei loro occhi») che ora il popolo era libero e indipendente. Quando, il giorno seguente, dopo l’ubriacatura di 24ore di rivoluzione torna a casa, la domestica l’avverte che eran tornati e lo aspettavano fin dall’alba, ostinati e pazienti, i contadini delle varici, e il vecchio ricomincia a spiegare al medico: «È principiato proprio con le formiche che mi camminavano sulle gambe»…
L’astrattezza verbosa e arrogante di chi vuol cambaire il mondo a chiacchiere e non compie i suoi doveri quotidiani è contrapposta alla concretezza della sofferenza che tormenta il vecchio eguale ieri come oggi, sia col secondo impero sia con la repubblica.
Ma viene alla mente un altro medico, quello di La peste di Camus, che, invece, vive la sua opera professionale come rivolta e non complicità col dolore e, come un bodhisattva o un Sisifo, nell’attualità dell’epidemia si confronta con l’irrimediabile, lottando ogni giorno contro la morte nei limiti dell’azione umana, pieno di compassione verso le creature sofferenti e mortali. Egli cerca di salvare le persone, lavora contro la sofferenza e la morte, pur con la consapevolezza che il bacillo della peste non muore ma è soltanto addormentato, che l’ingiustizia non è mai vinta, che gli innocenti continueranno a soffrire e morire.
Perché a noi, al di là delle perniciose illusioni dei totalitarismi teologici e/o politici, è dato di bonificare e redimere solo dei frammenti del mondo e a questo non dobbiamo e non vogliamo sottrarci.

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