giovedì 15 dicembre 2011

Monoteismi in dialogo?

MONOTEISMI IN DIALOGO?
Relazione di Riccardo Venturini (Centro di cultura buddhista) al 
Convegno “Monoteismi in dialogo”, tenutosi il 21 Novembre 2011 nella
Sala delle Colonne della Camera dei Deputati

Monoteismi in dialogo: con chi? Tra loro soltanto o anche con l’esterno? In dialogo tra loro: dopo essersi contrapposti, ostacolati, combattuti per secoli, i monoteismi sono passati al dialogo e dal dialogo sembrano addirittura andare verso un sincretismo, osteggiato ufficialemente ma auspicato da molti e, come proposto con minore o maggiore finezza da alcuni personaggi oggi di moda, condito con quote più o meno consistenti di elementi tratti da tradizioni orientali.
Ma c’è un dialogo con l’esterno? Vediamo iniziative (Cattedra dei non-credenti, Nuova evangelizzazione, Cortile dei gentili…) che si propongono un confronto coi cosiddetti “non-credenti” (brutta espressione, anche se certamente migliore di  “infedeli”), contrapponendo i credenti agli agnostici, ai laici “negativi” (quelli che non riconoscono alle religioni alcuno spazio pubblico, confinandole in spazi che dovrebbero rimanere “privati”), agli atei devoti, agli scettici inquieti (quelli che dicono “avessi la fede…!”), lasciando fuori alcuni arroganti rappresentanti di un vecchio ateismo militante scientistico. Sembra trattarsi spesso, in definitiva, di un dialogo con personaggi di comodo, quasi convocati apposta per tenere in piedi un teatrino dal quali emerge poco di significativo. Per questo vorrei qui evidenziare la posizione di chi non si sente né vicino né nostalgico della trascendenza monoteistica, ma avverte forte l’esigenza della costruzione di una nuova spiritualità, nella convinzione che una cultura, una civiltà ha bisogno di spiritualità, di religione se non vuole cadere nel caos e che — d’altra parte — un messaggio spirituale, una religione deve saper offrire una interpretazione del mondo se non vuole cadere nell’irrilevanza. Ed è proprio questa difficoltà a parlare la lingua della modernità laica che isola i monoteismi in uno spazio ripetitivo, diplomatico, esteriore che rischia di rendere vani il dialogo e gli incontri. Difficoltà che riguarda anche altre religioni, compreso un certo buddhismo che si presenta in forme istituzionalizzate, ideologiche, consolatorie.


Una spiritualità, affermavo, né vicina-al né nostalgica-del monoteismo, perché quello del monoteismo sembra oggi un racconto stanco, non più in grado di interpretare il nostro mondo e di offrire risposte utili alla costruzione di orientamenti spirituali di tipo nuovo. Attualmente, infatti:
                                                                               
  una componente uscita, per il suo radicalismo (usiamo questo eufemismo), rigetto e preoccupazione nel nostro Occidente, per cui siamo ancora a scrivere una sorta di interminabile prefazione in cui ci si  interroga sulla compatibilità di essa con le acquisizioni che sono state raggiunte nel campo della democrazia e del riconoscimento dei diritti della persona e, quindi, sulle possibilità di convivenza e integrazione;

  un’altra, pur se ci sentiamo spinti a un incondizionato sostegno dell’opera che svolge in difesa di un popolo, della sua memoria e della sua identità, non sembra capace, chiusa nel suo tradizionalismo, di offrire validi contributi nella direzione che auspicavo; 
   
 infine, per quello che riguarda la componente a noi più vicina, se guardiamo  alle espressioni tra le più significative della cultura contemporanea non solo nel campo delle scienze naturali e della tecnica, ma anche in quella che si suol chiamare la dimensione umanistica, da Baudelaire a Proust, da Freud a Lévi-Strauss, alla maggior parte della filosofia moderna, non possiamo non constatare che siano nate e si siano affermate al di fuori della cornice monoteistica cristiana e, anzi, con essa in antagonismo.

In che direzione guardare allora per cercare di promuovere una nuova e moderna spiritualità?  
Considerando i modi in cui il confronto si realizza e ai piccoli spunti validi che vengono da un dialogo ancora embrionale e quasi occulto, osserviamo che oggi non si parla più di quelle prove dell’esistenza di Dio che avevano affollato  le nostre passioni filosofiche adolescenziali (tanto da meritarsi oggi l’ironia di uno scrittore come Gesualdo Bufalino che dice: «”Se esistesse si saprebbe in giro”, disse il filosofo, parlando di non so chi...»), ma si è discusso e si discute, invece, con feroci polemiche, soprattutto negli Stati Uniti, tra creazionisti e neodarwinisti, tra sostenitori e avversari dell’ipotesi di un disegno intelligente (Intelligent Design), dell’ipotesi che il mondo sia governato da un principio di organizzazione intelligente, oppure da caso e necessità, dato che questo disegno — se ci fosse — non si potrebbe dire né tanto intelligente né amorevole, ma anzi spesso insensato se non addirittura sadico. Questa discussione manifesta, infatti, due componenti: una scientifica o razionalistica, che cerca di rilevare le “mancanze”, le contraddizioni, le smagliature reperibili nel progetto; un’altra etica, che lo rifiuta invece per ragioni morali, non intendendo accettare nessuna complicità col male e il “disordine”. Ed è su questa seconda componente che vorrei soffermarmi.
Per cominciare, la prima crudeltà del mondo è quella di non rispondere alle domande che l’uomo si pone sulla sua origine e sul suo destino, sul senso della vita, del dolore e della morte. Strana la condizione umana…! «Egli ha messo la nozione dell’eternità nel loro cuore» (Qoèlet, 3, 11), dice la Scrittura, ma «contritum est cor meum» (Ger 23,9; Salmo 69, 19) nel non poter accedere a quell’Infinito, essendoci sempre qualche «siepe che da tanta parte
 dell'ultimo orizzonte il guardo esclude»: potremmo dire che proprio nella coscienza di vivere in un mondo assurdo risieda la, o almeno una, delle radici della nostra infelicità.
La fiducia nel disegno intelligente non è venuta in crisi soltanto oggi. Fin dall’antichità classica era parsa evidente la difficoltà di conciliare la presenza del male nel mondo con l’idea di una divinità buona e onnipotente. Nel suo famoso tetralemma Epicuro osservava: «La divinità o vuole abolire il male e non può; o può e non vuole; o non vuole né può; o vuole e può. Se vuole e non può, bisogna ammettere che sia impotente, il che è in contrasto con la nozione di divinità; se può e non vuole, che sia malvagia, il che è ugualmente estraneo all'essenza divina; se non vuole e non può, che sia insieme impotente e malvagia; se poi vuole e può, sola cosa conveniente alla sua essenza, donde provengono i mali e perché non li abolisce?» Gli interrogativi di Epicuro, ripresi da Pierre Bayle (1647-1706), provocarono la “risposta” di Leibniz, che introdusse il termine teodicea per la sua tesi giustificazionista di Dio di fronte al male, teoria poi avversata da Voltaire e confutata da Kant. Il tremendo terremoto di Lisbona del 1755 scosse non solo la terra ma anche le coscienze e portò Voltaire a scrivere il Poème sur le désastre de Lisbonne e il Candide, nei quali lucidamente esprimeva i suoi dubbi sull’organizzazione razionale del mondo. E potremmo anche ricordare il poeta toscano Tommaso Crudeli (1703-45), massone, anticonformista e libertino, vittima della “santa” Inquisizione, che, già in precedenza, aveva ironizzato sulla provvidenza che produce questi effetti («Il gentile terremoto coll’amabile suo moto smantellava le città…»). Oggi basterebbe pensare allo tsunami accaduto in Giappone per mettere in dubbio che la natura sia guidata da una mano intelligente o amorevole, vedendo quanto poco si prenda cura delle proprie creature, sprecona al punto di sacrificare decine di migliaia di esseri umani, proprio quelli di cui si dice fatti a immagine e somiglianza di Dio, per dare un più comodo assetto a pietre e acque; una natura che divide il mondo vivente in divorati e divoratori, in cui si producono handicap, malattie, ogni sorta di dolori, morti non desiderate. Il mondo moderno ha operato un totale rovescimento di ogni teodicea, come sinteticamente appare nella famosa frase di Stendhal che, indignato contro la improvvida Provvidenza, diceva: «Quel che scusa Dio è il fatto che non esiste». Vorrei permettermi di ricordare qui un pensiero di Primo Levi, il quale asserì che una volta esistito Auschwitz nessuno dovrebbe più parlare di Provvidenza; e, infatti, oggi anche nel mondo cristiano si comincia a parlare del male “dopo” la teodicea e di un cristianesimo “senza teodicea”.
Dunque, pur senza vedere il mondo governato da una volontà cattiva (il mondo opera di un demiurgo cattivo, «arcana malvagità… eterno dator de’ mali e reggitor  del moto», «brutto
 Poter che, ascoso, a comun danno impera», per usare parole di Leopardi), il rifiuto del racconto monoteistico viene dal fatto che la nostra coscienza morale non vuole sentirsi complice di un principio che governa il mondo con indifferenza verso il dolore. So bene quale sia la risposta tradizionale: non giudicate col metro umano, il dolore viene dal peccato, tutto sarà redento, il male è una prova, siamo nel «tempo della pazienza e dell’attesa, in cui “ciò che saremo non è stato ancora rivelato” (1Gv 3,2)» (Cat. Chiesa Catt., 2772), l’uomo finito non può con la sua mente limitata comprendere il mistero della imperscrutabile volontà divina, mistero a cui si ricorre volentieri per tappare la bocca a un avversario che, per parte sua, non sa che farsene di questo refugium theologicum. Con quale intelligenza e con quale senso morale dovremmo, infatti, giudicare se non con quelli che ci sono stati “dati”, due facoltà che non possono venire sospese, non possono essere messe in frigorifero, e ci fanno prendere le distanze non solo da un eventuale demiurgo cattivo, ma anche da un dio burlone, che gioca col mondo, o machiavellico, che usa mezzi cattivi per fini buoni. Non possiamo dire se la nostra coscienza etica si ponga in continuità o in opposizione alla Legge che governa il mondo, ma comunque essa ci impedisce di accettare questo ordine di cose, la “forza delle cose” che “stanno così”: la kantiana “volontà buona” resta per noi la sola capace di contrastare i misfatti che osserviamo e subiamo, e lo stesso discorso vale anche per la esigenza e la volontà di produrre verità e bellezza.
Potrebbe, dunque, essere venuto il tempo di interrompere il gioco millenario che l’umanità ha fatto con le divinità, cercando salvezza nello stringere alleanze con potenze sovrumane che dovrebbero salvarlo. Direi, provocatoriamente, che dovremmo “dimenticare”, cioè andare oltre, Mosè, Gesù e l’eresia cristiana rappresentata dall’utopia marxiana…
  • Mosè ha portato lontano il sacro, ci ha fatto dimenticare quello che era l’atteggiamento che si aveva nel nostro mondo classico, in Grecia e a Roma, quando gli dèi erano vicini, si potevano incontrare, come accadeva a Enea che, nella giovane cacciatrice, riconosceva la dea dal modo di camminare: «Vera incessu patuit Dea». Mosè sposta il sacro da qui a lì, lo allontana e, al contrario di Virgilio, ricorda che «Tu non potrai vedere il mio volto, perché nessun uomo può vedermi e restare vivo» (Es. 33, 20). Nella Torah (II Sam 6, 6-8) altri racconti ribadiscono questo orientamento: si narra di Uzzà che stese la mano verso l’arca e vi si appoggiò perché i buoi la facevano piegare e di come l’ira del Signore si accese contro Uzzà: «Elohîm lo percosse per la trasgressione. Egli morì sul posto, presso l’arca di Elohîm»; un altro episodio riguarda i figli di Aronne (Lev 10, 1-2), etc. Di conseguenza, sulla base dell’Alleanza l’attesa diviene una virtù, capace di aspettare il tempo in cui «Misericordia e verità s’incontreranno, giustizia e pace si baceranno. La verità germoglierà sulla terra e la giustizia si affaccerà dal cielo» (Sal 85/84).
  • Gesù rimane nel solco del monoteismo e vuole persuaderci, contro tutte le evidenze, della bontà dell’Altissimo, affermando che «Nessuno è buono, se non uno solo, Dio» (Lu 18, 19), riprendendo la scrittura che dice anche: cantavano «ringraziamenti al Signore perché è buono, perché la sua grazia dura sempre verso Israele» (Esd 3, 11). Nel gioco dei ruoli trinitari, il Cristo sembra venuto a correggere e integrare la Legge del Padre con la Legge dell’amore («Chi ama il prossimo ha adempiuto la Legge», Rm 13, 8).  Egli non si pronuncia sul male e il dolore, “giustifica” il Padre, si pone di fronte alla sofferenza offrendo la sua solidarietà e il suo martirio di “servo sofferente”, e promettendo la fine di ogni negatività (concetto cristiano di salvezza). Così facendo, Egli è al riparo da ogni coinvolgimento sul perché le cose siano andate come sono andate e vadano come vanno (con la massa di dolore innocente che chiede di essere redento). Tuttavia, se tutto si svolgesse secondo un ordine provvidenziale, espressione della volontà di un Dio buono, non ci dovrebbe essere bisogno di interventi correttivi o integrativi, per cui o Gesù è Dio ed è anch’egli “responsabile” del male che è nel mondo (in complicità col Padre) o è soltanto un “servo sofferente” e allora il suo sacrificio non è bastato — come sperimentiamo ogni giorno — a operare la grande redenzione e a cancellare il dolore, riuscendone a cambiare, forse, solo significato e modalità di gestione, come, più o meno, possiamo cercare di fare tutti noi quando vogliamo essere redentori del male nell’amore. La persona, la cui dignità viene pur affermata in quanto figlia e immagine di Dio è mortifica qui e oggi per farla splendere e domani, senza speranza di autonoma salvezza («i discepoli rimasero costernati e chiesero: “Chi si potrà dunque salvare? E Gesù, fissando su di loro lo sguardo, disse: “Questo è impossibile agli uomini, ma a Dio tutto è possibile”», Mt. 19, 25 s.). Qui si può abbracciare il nemico e il cattivo, perché quel che succede nella storia non ha grande importanza in quanto si verrà compensati : il discorso delle beatitudini è il grande manifesto del risarcimento, un risarcimento che si avrà in un giorno lontano, in cui “alla fine”, il Signore asciugherà tutte le lacrime, perché non ci saranno più malattie, sofferenze e morte. Ma la promessa non mantenuta illanguidisce nel tempo e la figura stessa del Redentore si è trovata progressivamente esposta al rischio di un progressivo logorio di attendibilità: l’idea del Dio summum bonum ha lasciato il posto a una figura bivalente, dal duplice volto, uno luminoso e amorevole e un altro oscuro e crudele (Jung). Ed è alla nostra “volontà buona”, che non vive nel “regno dei cieli” ma nella “repubblica della terra”, che resta il compito di combattere il male, e possibilmente vincerlo, senza giustificazionismi e senza complicità.
  • L’utopia marxiana, in questa prospettiva, si qualifica come eresia cristiana: eresia, perché pensa di portare in terra una società pensata per il cielo, e cristiana, perché la colloca comunque in un altro tempo, alla fine della storia. Prigioniero del nesso perverso tra utopia e terrore, il cosiddetto umanesimo marxiano avendo a che fare con una società di uomini e non di angeli è costretto a colmare il gap attraverso una tremenda macchina di repressione e di violenza che non solo uccide la libertà, ma tradisce anche l’esigenza di giustizia in cui doveva risiedere la sua ragion d’essere.


Una spiritualità del finito significherà allora, finita la ricerca dell’alleanza con le potenze (l’Alleanza non è più una virtù!), vivere nella consapevolezza della contraddittoria, limitata, tragica condizione umana, impegnata a riavvicinare quel sacro che era stato allontanato, lavorando umilmente, contando sulle proprie forze e non più sul Pastore «che su pascoli erbosi mi fa riposare» (Sal 23, 2). Si tratterà di una costruzione complessa di cui cominciamo a poter vedere solo qualche abbozzo, perché una “nuova religione”, che porti a riavvicinarci al sacro e a quello che è stato chiamato il “reincanto del mondo”, non potrà essere costruita a tavolino. Vorrei augurarmi che un buddhismo “critico” possa offrire, con le sue accurate analisi della condotta in tutte le sue manifestazioni, un significativo contributo di mediazione e di approfondimento, pur nella consapevolezza di dover compiere anch’esso uno sforzo di modernizzazione per costruire una via occidentale per il Buddha-Dharma. Si tratta di una meta che deve, infatti, impegnare tutti, perché a ogni religione si può dire, come l’Angelo a Maria nelle parole di Rilke (Annunciazione): «Tu non sei più vicina a Dio di noi; siamo lontani tutti». E meritano di essere qui ricordate le considerazioni che Fromm, già vari decenni fa, faceva (in The Sane Society, 1955; tr. it. Psicanalisi della società contemporanea) su una possibile religione del futuro: «In effetti, per coloro che vedono nelle religioni monoteistiche soltanto uno degli stadi dell’evoluzione del genere umano, non è troppo difficile convincersi che una nuova religione si svilupperà entro pochi secoli, una religione che corrisponda allo sviluppo del genere umano; il più importante carattere di questa religione sarebbe quello universalistico che corrisponderebbe all’unificazione dell’umanità che sta oggi verificandosi; esso racchiuderebbe gli insegnamenti umanistici comuni a tutte le grandi religioni dell’Oriente e dell’Occidente; le sue dottrine non contraddirebbero le conoscenze razionali dell’umanità odierna e l’accento sarebbe posto sulla pratica di vita piuttosto che su credenze dottrinarie. Una simile religione creerebbe nuovi rituali e nuove forme artistiche di espressione tali da produrre uno spirito di riverenza per la vita e la solidarietà dell’uomo. Naturalmente la religione non può essere inventata, essa si affermerà con la comparsa di un nuovo grande maestro proprio come ne sono apparsi nei secoli precedenti quando i tempi erano maturi. [Fromm scriveva molti decenni fa e oggi non è detto che si debba necessariamente pensare a una persona fisica, perché potrebbe, ad esempio, trattarsi anche del “Dio digitale” che comincia ad avere una sua esistenza latente nei nostri computer]. Nel frattempo quelli che credono in Dio dovrebbero esprimere la loro fede vivendola; quelli che non credono vivendo i precetti di amore e di giustizia, e rimanendo in attesa».
Albert Camus aveva visto nella mitica figura di Sisifo l’immagine della condizione umana, quella che ci porta a costruire, perdere, ricominciare e aveva pensato di poter prospettare non il solito Sisifo dannato e sconfitto, ma addirittura un “Sisifo felice”. Quale potrebbe essere la fisionomia di una felicità legata alle fatiche e alle sconfitte di Sisifo? Per calare questa figura archetipica nella nostra realtà quotidiana potremmo immaginare una situazione in cui il mattino, per così dire, ci veda pieni dell’élan vital del costruttore, potremmo dire “pazzi di gioia” nel produrre nuove opere di bene, di bello, di vero, ma ci veda poi, la sera, “saggi di dolore” di fronte ai limiti e alle sconfitte legate alle nostre debolezze, consapevoli di dover ricominciare daccapo il giorno dopo. Ebbene, io credo che Sisifo, cioè noi, possa essere felice realizzando una coscienza che riesca, tenendo insieme la saggezza della sera e la follia del mattino, la tristezza e la gioia, a conciliarsi con l’inconciliabile, sapendo che la felicità (la jouissance), richiamando le parole di Maupassant, non è necessariamente allegra.

13 commenti:

Anonimo ha detto...

Caro professore, la lucidità delle sue argomentazioni lascia sbigottiti. Tuttavia, questo mio commento non è frutto di questo sbigottimento ma di un analogo stato d’animo derivante dal fatto che Lei ha ritenuto necessario mettere in fila queste argomentazioni al giorno d’oggi. Mi spiego e lo faccio utilizzando una mia consapevolezza che non viene dagli studi ma dalla percezione (assai più che dalla riflessione) sulla vita quotidiana. Le esprimo insomma un mio sentire radicato nel tempo, privo delle sue ampie conoscenze, ma in grado in qualche modo di mettere fino ad oggi in salvo dalla follia e dalla disperazione la mia modesta esistenza.
Diversi anni fa, da giovane ma adulta, ho “re”-incontrato la religione cristiana (“ereditata” da tradizioni familiari radicate ma non coercitive). Era un tempo di ricerca di risposte proprio sul tema del dolore, che aveva colpito la mia famiglia senza alcuna possibilità di salvezza o di soluzione. Un dolore che non si esauriva in un momento, un giorno, una data, un evento. Ma che tutti noi sapevamo di dover affrontare sine die e con il quale avremmo dovuto confrontarci ogni giorno per molti anni a venire, perché ogni giorno sarebbe stato presente ai nostri occhi, vivo nelle nostre vite, causa di mille altri dolori quotidiani che avrebbero esacerbato quella prima, tremenda, assurda e inspiegabile scoperta. Era il dolore di una vita giovane, piena di speranze, destinata a vivere disperata.
Per chi vive e vede questa disperazione, come la mia famiglia, il dolore diventa una condizione quotidiana, alla quale pare ci si possa adattare, consapevoli però che è un buco nero che niente e nessuno potrà mai colmare.
Ho frequentato all’epoca una piccola comunità di preghiera cristiana. Ascoltavo e leggevo le parole del Vangelo, parlavo con sacerdoti pieni di umanità e di fede, condividevo, senza spiegazioni o racconti, il mio dolore. Ma dovevo scegliere, se credere – e cosa credere – o se continuare una vita senza il senso dell’assoluto e di Dio.
Le spiegazioni sul perché esista il male, il dolore nel mondo datemi da molti credenti e da diversi sacerdoti non mi sembravano sufficienti. Purtroppo per me – forse – l’idea di una vita meravigliosa dopo la morte, di un riscatto dopo la sofferenza terrena, non sono mai stati in grado di farmi superare le mie perplessità. Mi sembravano troppo e inutilmente e vigliaccamente consolatori. Ma un giorno qualcosa è successo, leggendo il Vangelo, leggendo le parole di Gesù laddove quelle parole descrivono la legge dell’amore. Nel mio piccolo di persona semplice, quel giorno ho capito che non erano le beatitudini del “poi” la risposta che cercavo alla mia personale sofferenza. C’era solo una strada che poteva sottrarmi alla follia che nasce dall’incapacità di spiegare l’inconciliabile. Era l’impegno dell’amore. Gesù ha aperto questa strada. Chi la percorre non sa dove andrà a finire, non sa se, dopo la morte, incontrerà l’Eterno, nemmeno confida veramente, razionalmente nella beatitudine del “poi”. Sa solo che deve continuare a camminare credendo in quella legge, sforzandosi di rimanere coerente con quel percorso. Non è la risposta all’inconciliabile, perché – forse – risposta non c’è. C’è solo l’impegno a fare in modo che, alle tante vite “buttate” in questo oceano di sofferenza, alle tante vite vissute nell’inconsapevolezza che porta alla disperazione, si porga una mano e si rivolga un sorriso. Che non serve per dire: “Non preoccuparti, il dolore non c’è” oppure “Tranquillo, domani sarà migliore”. Ma solo: “quello che vivi oggi è con-diviso”. Quindi, è diviso a metà.
Per questo, caro professore, trovo che lei sia stato sagace, sintetico, efficace. Ma non originale.

Alessandra

Riccardo ha detto...

Cara Alessandra, La ringrazio dell'attenzione che ha riservato al mio scritto e voglio rassicurarLa che il mio intento non è di criticare la "legge" o meglio la "pratica" dell'amore, ma le giustificazioni che di esse si danno. L'amore non è solo un fatto intimo e privato, ma su di esso si sono costruite ideologie, istituzioni, imposture, potere, su cui credo necessario riflettere. C'è una verità dell'amore ma c'è anche l'amore per la verità (e per la bellezza). Mi creda, non sono alla ricerca della originalità, se con questa parola intende ciò che è insolito, eccentrico, stravagante; sono, invece, alla ricerca dell'originario, dell'autentico, del non contraffatto sulla nostra tragica condizione umana, essenziata di sofferenza: per questo mi consenta di dirLe che non possono non addolorarmi le Sue parole che avverto così prive di considerazione e così poco amorevoli.

bio ha detto...

Traggo non pochi spunti di riflessione e dubbi e per questo ringrazio.

C’è stata allegria in questi giorni di festa dalle mie parti, nel “tacco d’Italia”, a casa di uno dei nove fratelli di mia madre. Non si può mica essere felici finché ci sono alcuni fratelli assenti dal convivio perché “c’hanno problemi”! Ma nulla vieta di essere allegri. Così si è ricreata la solita atmosfera conviviale enfatica e caciarona, che ha sempre segnato tutti i “Santi Natali” sin da quando sono nata e che aveva il suo tempio a casa di nonna, prima che nonna morisse e la casa venisse venduta. C’è stata allegria, c’è stata una tavola imbandita e cibo in abbondanza come sempre e c’è stato pure il presepe. Cosa è cambiato? È stato bandito il rosario in latino davanti al presepe e sono state tolte dalla scaletta della serata anche le poesie dei bambini (oggi adolescenti o adulti fatti) e le cantilene di “Tu scendi dalle stelle” e “Dormi dormi” per Gesù bambino, tutte pratiche che devono aver visto il terzo millennio solo per compiacere nonna (o una esigua minoranza di figli) visto che si sono spente con lei.

Un giorno forse sparirà anche il presepe. Perderemo un attrattore e se ne creerà un altro forse, se lo vorremo, se il caso lo permetterà. Un giorno forse si abbasserà il volume dell’allegria e si alzerà quello della consapevolezza che siamo solo uomini e siamo soli, quindi è meglio non giudicarsi, aiutarsi, amarsi. E forse quel giorno anche i fratelli che “c’hanno problemi” si uniranno comunque al convivio. Ma quel giorno potrebbe non venire o la mia famiglia potrebbe disgregarsi prima di allora, così nel frattempo me la godo così com’è, opulenta e modesta, unita e mai una volta che si riesca a stare tutti insieme.

Riccardo ha detto...

Può essere tenera la nostalgia per le nostre vecchie tradizioni. Mi chiedo: come saranno le nuove che dovremo essere capaci di costruire sulla base della nostra solitudine e finitezza?

Anonimo ha detto...

Caro professore, capisco dalla sua risposta di essermi espressa davvero male tanto da sollevare una sua obiezione. Entrambe le cose mi dispiacciono molto e me ne scuso. In realtà, ovviamente da lei non cercavo nulla di inusuale o di straordinario. Forse, semplicemente, cercavo “la risposta”, quella vera e unica e assoluta, alla presenza del dolore nel mondo.
La sua indicazione è l’uomo-Sisifo, che si alza al mattino pazzo di gioia e a sera si ritrova saggio di dolore. E’ molto distante questa realtà di consapevolezza che lei disegna dalla “mia” via dell’amore, fatta di impegno, di com-prensione, com-partecipazione e di capacità – tutta vissuta nell’intimo – di “accettare” la presenza del dolore così come si “accetta” il fatto che i prati a primavera sono verdi, il cielo è tendenzialmente azzurro, e gli uomini solitamente sono esseri che camminano ritti su due gambe?
“Accettare” non è capire. “E’” semplicemente. E a volte questo non basta pur essendo già qualcosa.
Per una persona come me e come lei (ma forse siamo in tanti!) che non tollera altre “facili” soluzioni, trovandole meramente giustificazioniste, che non ha alcuna possibilità di illudersi che i morti di Fukushima erano predestinati alla vita eterna, che non può accettare che il Dio che ci ha generati ci imponga di ucciderci l’un l’altro, che ritiene una follia egoista aspirare al Nirvana, beh, carissimo professore, quella persona, malgrado la sua “via dell’amore”, resta alla ricerca di un “perché”. Ma forse la risposta a quel “perché” non esiste. La qualcosa, personalmente, mi brucia. E dato che non ho altri strumenti, a me non resta altro da fare che andare a miscelare gli ingredienti di una torta che presenterò questa sera a cena. Sperando lieviti a sufficienza e sia buona. Ma tra una torta e l’altra, continuerò a leggere il suo blog, confidando nella sua capacità di regalarmi, un giorno, quel “perché”.
Alessandra

bio ha detto...

Bella domanda. Forse le “nuove tradizioni” sono già in costruzione ed aspettano solo di avere campo libero (all’epoca dei dinosauri, i mammiferi già esistevano ma con specie piccole e notturne, poi un giorno hanno avuto la loro chance e…).

Nel mio piccolo (ma che dico, microscopico) mi piace immaginare una nuova ritualità che riduca gli inganni, gli eccessi, gli sprechi, la passività ed il senso di isolamento ed alimenti la sacralità dei piccoli gesti, del fare, del ricercare, dello sbagliare e del collaborare, poiché ciascuno apporta il suo insostituibile tocco all’opera e la fallibilità dell’uno può essere colmata dalla capacità dell’altro. Abbiamo la testa troppo lontana dal suolo per prendere qualche spunto dagli insetti sociali?

Riccardo ha detto...

Continuando a discutere ci si può intendere meglio. Quello che voglio ribadire è che Il mondo finito, dei fenomeni e degli eventi è essenziato di dolore e sembra impossibile concepire il mondo fenomenico e la vita senza dolore (anche se ciò non ha impedito di immaginare dèi e angeli vivi e senza dolore). Ma constatare questa ineluttabilità è cosa diversa dall’accettarla, dall’offrire consenso a questa radice del male, che è pure la nostra stessa radice. Constatare di vivere in uno stato totalitario, ad es., non significa giustificarlo e accettarlo.
L’amore lotta contro l’odio, la creazione contro il disordine e la volgarità, la verità contro l’oscurità e le menzogne, abbandonando la provvidenza, i disegni intelligenti e i sostegni amorevoli. Piace anche a me Gesù che paga col martirio il rifiuto di accettare la legge (del Padre?) del conflitto e dell’odio, e fare una buona torta è cercare di raggiungere la per-fezione, cioè la compiutezza, nelle opere quotidiane, agire contro lo spreco, il caos, il disgusto.
Ma attenzione anche alla retorica dell'amore. Pur senza arrivare a dire, come lo scrittore, cattolico, G. Greene «Il cuore è una bestia di cui è prudente non fidarsi. L'intelligenza è un'altra, ma almeno non parla d'amore», dobbiamo sapere i limiti di quel con-dividere di cui Lei ha detto e su cui non posso non essere d'accordo: anche se in tanti, riconoscendoci, beviamo insieme dal calice del dolore, resta il sopruso di quel calice che vorremmo non ci fosse e che non viene eliminato. Ricorda "La peste" di Camus? Il medico svolge la sua opera salvando la creatura, preservando la vita in lotta contro la sofferenza e la morte, anche se ha chiara consapevolezza che il bacillo della peste non muore ma è soltanto addormentato, che l’ingiustizia non è mai vinta e che gli innocenti continueranno a soffrire e morire.

PINO ha detto...

Occorre pure fondare una Ermeneutica della soggettivazione e del soggettivizzazione dopo quella del soggetto.
Occorre una giustizia che sia giusta per tutti gli esseri umani ma anche per altri soggetti che finora non sono stati riconosciuti. Le altre specie, l'ecosistema, le altre culture, etnìe, ecc.
Occorre una politica fondata sulla responsabilità e l'autorevolezza dei soggetti politici piuttosto che sul potere e sulla prepotenza, che saranno invece avversati.
Occorre, perché tutto ciò avvenga, anzitutto, che ciascuno faccia rinascere, o resuscitare, la humanitas che la nostra coscienza conserva, perchè ci si risvegli In Coscienza!
L'Homo Novus del terzo millennio nascerà quando il nostro Io riconoscerà e recupererà le quattro identità che lo hanno preceduto nell'evoluzione della sua coscienza, e che lo hanno prodotto e lo alimentano.
L'Io potrà allora riconoscere la sua vera identità nascosta e quella dei suoi simili, della società, della specie da cui è stato prodotto; con queste può identificarsi e unirsi umanamente e religiosamente, salvandosi, eternizandosi con esse affinché la sua vita non sia di inutile monade o di parassita!
La nostra coscienza nasce figlia di tutte le coscienze ma in noi e con noi vive e muore una sola vita: l'Io ne è unico testimone ed unica guida! Perciò individuviamoci insieme, con Amore in Coscienza!
Il sentiero dell'Ontica l'ho tracciato tra infinite difficoltà, da trent'anni, in solitudine, in segreto, tra le incomprensioni e le diffidenze altrui; ma ne è valsa e ne vale la pena!
L'Ontica è il miglior dono che la vita mi abbia offerto e che io offro a quei fratelli e sorelle che vogliano percorrere con me questa via, che si riallaccia all'antica orientale via del Tao. Tanti più percorreremo questo sentiero, tanto più esso diventerà una via ampia, facile e gradevole da percorrere, e ci ritroveremo insieme e saremo molti, TUTTI PER UNO, liberi, potenti e felici per una vera Esistenza Ontica!
Adesso, se vuoi far tuo questo manifesto, è l'ora di unirti con chi, con te e come te, vuol cambiare il mondo ricreandolo con la ri-evoluzione ontica!
Così presto avv-errà ciò che Jeremy Rifkin profetizza: una Coscienza Globale in una futura Civiltà dell'Empatia. La via Ontica conduce a questo!
Per coloro ai quali ciò non bastasse c'è sempre qualche paradiso che attende! Viva la tolleranza!
Questo progetto inizia da te, dal tuo Io, ricordalo!
MANIFESTATI IN COSCIENZA!

Pintor
(Natale 2011) Associazione Salve
associazionesalve.blogspot.com - as.salve@yahoo.it

Anonimo ha detto...

Mi metto in fila, caro professore, come una bambina al richiamo della maestra. Non c’è nulla di ciò che Lei ha scritto che non mi trovi – dolorosamente – d’accordo. E a proposito del limite del con-dividere le aggiungo che per me è stata una scoperta dirompente il reale significato di quel “ama il tuo prossimo come te stesso”, che, per quanto mi è stato spiegato, significa sia “tieni in considerazione le ragioni degli altri” quanto “tieni in considerazione le tue ragioni”. Perché, lo ammetto, la seconda parte di questa frase io non l’avevo davvero mai sufficientemente valorizzata.
Certo quanto Lei scrive lascia aperto il “buco nero”. Il “perché” – forse – non lo capiremo mai. Restano Sisifo, la pietas del medico della “Peste”, le sue lucide argomentazioni e le mie torte destinate ad addolcire momenti difficili. E resta anche – e mi spiace che con questo Lei certamente molto più di me si debba ancora confrontare – le spesse fette di prosciutto che coprono gli occhi di tante persone che professano le diverse religioni codificate e che di esse fanno una bandiera.
Intendiamoci: io ho grande rispetto di quanti hanno il dono della fede e la professano con cuore puro. A me questo manca (è un difetto? Un pregio? Chissà…). Non mi difetta, invece, il senso di responsabilità, cosa della quale Lei mi sembra dotato in maniera esponenziale. La responsabilità di essere nel mondo, di appartenervi, di adoperarmi con le mie torte affinché sia meno amaro. Ma, al tempo stesso, di trovarlo profondamente, radicalmente, fondamentalmente ingiusto.
Alla fine, caro Professore, la via dell’etica, pur essendo probabilmente l’unica possibile, è come la morfina per i malati terminali.
Alessandra

Riccardo ha detto...

La verità, l'amore, la bellezza credo che siano molto di più di una dose di morfina: sono le uniche luci che possiamo portare nel mondo e Jung ci diceva: «per quanto ci è dato conoscere, l’unico significato dell’esistenza umana è di accendere una luce nelle tenebre del puro essere».

Anonimo ha detto...

Caro professore, la Sua relazione mi aiuta nella mia maturazione spirituale in una forma più laica e aperta.
Giorgio

michelangelo ha detto...

Una prima considerazione che mi sento di fare riguarda il disegno intelligente, che poi tanto intelligente non sarebbe, per via dell'insensatezza, della crudeltà e del caso che ci affligge sofferenze senza fine. Penso che bisogna sempre considerare la posizione dell'osservatore. Vista da un batterio di polmonite, non sarà tanto amorevole la mano che offre l'antibiotico! che agisce per salvare il corpo del paziente. Ora se il male viene perpetrato agli uomini, fatti ad immagine e somiglianza del creatore, le cose sono diverse. “Il gentile terremoto coll’amabile suo moto smantellava la città...” del Crudeli ha provocato dolore e morte agli uomini per una diversa sistemazione della terra e delle acque. Ma forse è possibile considerare tutto questo come il risultato di qualcosa al quale molti di noi non hanno accesso, per via della nostra attuale limitatezza. Può ben essere che tale stato di ignoranza possa essere nel futuro risolto, facendoci capire il perché di tanto male. Infatti a Stendhal che afferma che «Quel che scusa Dio è il fatto che non esiste», si potrebbe obiettare che «Il fatto che tu non lo veda non lo rende inesistente.». Prima di Newton non si era spiegata la forza di gravità, che non si poteva vedere con gli occhi ma il cui effetto era nondimeno tangibile. E’ questo soltanto un refugium theologicum che non soddisfa per nulla la volontà di comprendere? Può darsi, però anche se la risposta sia insoddisfacente se analizzata con il ragionamento questo non la rende automaticamente sbagliata.
Mi sembra poi che i vari tentativi di spiegare l’attività del divino considerando una volta i mali che affliggono il mondo, un’altra la sua onnipotenza vera o falsa, non ci possa condurre lontano, anche se per forse per alcuni è un’attività utile a colmare il bisogno di ragionamenti con i quali raggiungere qualche verità e dare senso alla vita, e al dolore che la permea.
Alle domande della vita alle quali il mondo non offre risposte si potrebbe rispondere come Corrado Guzzanti, nella sua parodia del monsignore cattolico che, interrogato sul senso della vita risponde convinto: “Il senso della vita è la vita, il fine della vita è la fine”. Forse le predette domande non devono trovare risposta, almeno per adesso, fino a che l’uomo non sia giunto ad un grado di consapevolezza che gli consenta di rispondere da solo, sempre che tali interrogativi continuino ad essere per lui importanti. Come nella celebre parabola del buddhismo dell’uomo colpito dalla freccia che, prima di lasciarsi estrarre la freccia, vuole sapere chi l'ha lanciata e da che direzione, se la punta è d'osso o di ferro e di che legno è fatta. Il Buddha paragona questo atteggiamento a quello di colui che vuol sapere, prima di iniziare a praticare una religione, l'origine dell'universo: se è eterno o no, se lo spazio è infinito o no, e così via. Gente così morirà certamente prima di aver potuto dare una risposta a queste domande inutili, così come morirà l'uomo della parabola prima di avere tutte le risposte che vuole sull'origine e la natura della freccia.
Mi piace molto la nuova religione possibile proposta da Fromm (anche se non riesco a capire come l’insieme di persone del “dio digitale”possa sostituirsi ad una persona fisica) soprattutto quando pone l’accento sulla pratica di vita piuttosto che sulle credenze dottrinarie. Mi pare bellissima la sua esortazione finale, che induce all’azione piuttosto che alla speculazione: “Nel frattempo quelli che credono in Dio dovrebbero esprimere la loro fede vivendola; quelli che non credono vivendo i precetti di amore e di giustizia, e rimanendo in attesa».

Riccardo ha detto...

Il discorso qui potrebbe ricominciare daccapo, riflettendo sul fatto che se esistenza ed essere non coincidono e l’esistenza non ha in sé il suo fondamento, l’esistente non può porre domande sull’Essere e non può sapere quale sia il senso dell’esistere, per cui preferisco lasciare la parola a chi, come Jung, ha detto: «Essendo una parte, l’uomo non può intendere il tutto. È alla sua mercè. Può consentire con esso o ribellarsi; ma sempre ne è preda e prigioniero. Ne dipende e ne è sostenuto. […] Chiamerà l’ignoto col più ignoto, ignotum per ignotius, cioè col nome di Dio. Sarà una confessione di imperfezione, di dipendenza, di sottomissione, ma al tempo stesso una testimonianza della sua libertà di scelta tra la verità e l’errore». La non risposta del mondo alla domanda fondamentale dell'uomo(col conseguente sentimento dell'assurdo) è la radice del dolore e quindi...