I moralisti contemporanei non trattano più volentieri delle virtù e dei vizi; semmai privilegiano vizi e passioni rispetto alle virtù. Fa eccezione Salvatore Ntoli che, nel suo Dizionario dei vizi e delle virtù, include la Pazienza e la confinante Fortezza. Perché la pazienza è virtù attiva, non semplice rassegnazione: pur tollerando con animo equilibrato le contrarietà della vita, «l’uomo paziente non si adatta al dolore, ma lo governa: soprattutto non lo accetta come una condizione definitiva. Paziente è colui che sa a lungo sopportare, ma è soprattutto colui che sa attendere, che non si lascia vincere dalla tristezza, che nel dolore non è preso dallo sgomento, bensì è capace di discernere altre possibilità». Il che significa anche nessuna debolezza verso disservizi, crisi amministrative, illegalità, che toglierebbero alla pazienza il carattere di virtù trasformandola in connivenza.
La pazienza consente di sopportare i danni che ci vengono dagli altri nella fiducia che l’altro possa cambiare, per cui «la pretesa del giusto risarcimento, non deve escludere la comprensione delle ragioni dell’altro», che anzi dobbiamo aiutare perché possa comprendere i suoi errori. Abbiamo visto come Shantideva, vedi post del 14 10 11, sottolineasse il “determinismo” presente nel comportamento altrui (e nel nostro!), con una catena (karmica) di cause ed effetti che non lo rendono “responsabile” dei suoi atti, catena sulla quale possiamo, tuttavia, esercitare un effetto di cambiamento proprio con la nostra azione educativa e tollerante.
Imparentata con la fortezza e con la perseveranza, la pazienza — nota giustamente Natoli — è «prerogativa di una forma mentis capace di complessità», ma qui egli sembra avere abbracciato un ottimismo “d’ordinanza” che vuole rassicurarci della costante presenza di alternative “positive”, mentre è proprio la consapevolezza della complessità che, collocando i nostri danni e le nostre “disgrazie” nel quadro della sofferenza universale (dukkha, “cià che è difficile da sopportare” nel lessico buddhista), di fronte al male ineluttabile che abbiamo il dovere di non nascondere, ci dà sì una ulteriorità, ma l’ulteriorità rappresentata, in ultima istanza, dalla coscienza e dalla paradossale affermazione di libertà propria del martire.