lunedì 26 luglio 2010

Dimenticare Ganesh!

Ganesh o Ganesha, la divinità induista dalla testa di elefante, ben noto in tutto il mondo, è una figura carica di simboli e significati. Figlio di Shiva e Parvati (etim. “Signore dei gana” o “di tutti gli esseri”, detto anche “Signore/Distruttore degli ostacoli” o “donatore di successo”), benché i devoti ne sostengano radici vediche, la sua origine storica sembra piuttosto tardiva (V sec. della nostra era; su questo v. in Encyclopedia of Religion, s. v. e in Wikipedia, s v.). “Convocarlo” qui ha il fine di riferirsi al suo aspetto archetipico, al di là dell’appartenenza al mondo induista. Tra gli attributi di cui è dotato e gli oggetti che ha vicino, presenti nelle raffigurazioni (testa di elefante con larghe orecchie e quattro braccia, proboscide, ventre obeso, fiore di loto...), soffermiamoci sulla sua cavalcatura e sull’ascia che tiene delle mani. Il grosso elefante (forza, intelligenza discriminativa, volontà) ha come cavalcatura un topolino (la mente mobile e vorace); cavalcandolo, Ganesh lo domina e il topo, che ha accanto piatti ricolmi di dolci e un boccone già tra le zampine, non osa mangiarlo sotto lo sguardo della divinità: l’ascia minacciosa di Ganesh ricorda che i desideri, apportatori di attaccamento e sofferenza, vanno tagliati senza esitazioni. L’insegnamento che esorta a distaccarsi dal desiderio e dal mondo terreno contaminato attraversa le religioni misteriche, la saggezza socratico-platonica e quella stoica, il neoplatonismo e i rigorismi cristiani, la dottrina buddhista della “scuola antica” (“Abbattete la foresta [del desiderio], non un albero soltanto! Dalla foresta [del desiderio] sorge la paura. Quando avrete tagliato sia la foresta sia il sottobosco, conservatevi disboscati, o monaci”, Dhammapada, 283; “finché non sia stato reciso anche il minimo desiderio dell’uomo verso la donna, la sua mente sarà dipendente [dalla passione] come il vitello alla madre”, ivi, 284), etc. Il “Nuovo testamento” mahayana (“Il samsara è in nulla differente dal Nirvana. Il Nirvana è in nulla differente dal samsara. I confini del Nirvana sono i confini del samsara. Tra i due non c’è la minima differenza”, Nagarjuna) guida, invece, il bodhisattva a vivere nel mondo come il fiore di loto, immacolato benché con le radici nel fango. Se guardiamo a Ganesh nel suo valore simbolico, sintesi di tutti gli insegnamenti dualistici che separano mondo terreno e mondo celeste, anima e corpo, purezza e carne, Nirvana e samsara, la nuova “parola d’ordine” può diventare: “Dimenticare Ganesh!”

2 commenti:

Anonimo ha detto...

Mi permetto un paio di osservazioni. La prima riguarda la cultura indiana che non è stata sempre nemica del 'mondo'. Tutt'altro. La religione vedica si fonda sulla 'bhukti' (felicità terrena) e non sulla 'mukti' (liberazione dal mondo), centrandosi peraltro sul sacrificio vedico come scambio di doni con gli dei per ottenere godimenti terreni. E' con le Upanisad che si iniziano a veicolare interpretazioni e dottrine estranee ai Veda come il samsara, mukti, lo stesso yoga per come noi lo conosciamo (forse ripreso dall'India prevedica) etc. Spesso le Upanisad, a partire da quelle tardo-vediche, risentono in tal senso di alcune coeve dottrine buddhiste e jainiste. Comunque sia, con il "periodo assiale" identificato da Jaspers, in India si medita sul mondo pieno di sofferenza e si elaborano per questo delle strategie di 'fuga' dallo stesso. Anche il buddhismo segue questo procedere nelle dottrine hinayaniche ma non in quelle mahayaniche che fondandosi sugli insegnamenti dello sunyata e della tathata mirano ad una consapevolezza sul mondo e per il mondo e non su un distacco da esso, tantomeno conseguito per scopi personali. La seconda osservazioni e sull'elefante Ganesh, tale figura risale alla combinazione dei termini sanscriti 'ga' e 'ja' (origine e scopo) con cui si soleva indicare nei Veda 'Ganapati' (il Signore delle schiere, epiteto variamente attribuito ad alcuni deva ma che nei Veda non ha nulla a che fare con il tardissimo Ganesh). Bene, 'gaja' in sanscrito (sostantivo maschile) può significare anche "elefante". Da qui, quando circa duemila anni dopo si inizia a configurare la deità di Ganesh accostandola a quella del Ganapati vedico, la rappresentazione della nuova divinità diviene l'elefante. Mi attardo su un'ultima considerazione: lo sunyata (vacuità). Certamente lo sunyata è una dottrina centrale del mahayana ma quando il più antico sutra mahayana, l' Aṣṭasāhasrikāprajñāpāramitā, parla del bodhisattva lo colloca nella "talità" (tathata) non nella vacuità (sunyata): « Collocherò me stesso nella "talità" (tathātā) e, in modo che tutto il mondo possa essere soccorso, collocherò tutti gli esseri nella "talità", e condurrò al nirvāṇa il mondo innumerevole degli esseri senzienti ». Aṣṭasāhasrikāprajñāpāramitā risale al I secolo a.C. ma Tilmann Vetter (On the Origin of Mahāyāna Buddhism and the Subsequent Introduction of Prajnāpāramitā. In Asiatische Studien 48/4 (1994): 1241-81) ha dimostrato che risalirebbe ad una tradizione orale più antica.
Xinstalker

Anonimo ha detto...

Sono impressionato dalle dotte osservazioni contenute nel commento precedente. La talità in particolare mi affascina (sebbene non abbia capito cosa sia). E tuttavia mi pare sfuggano dal quesito posto dal prof. R.: dobbiamo davvero dimenticare Ganesa?

Per quel poco che ne intendo il desiderio, in tempi di semiocapitalismo, è talmente inflazionato che non è una cattiva idea tenersene alla larga.
Ma alla alla divinità proboscidata, suggerisco, si dovrebbe forse pensare in altra foggia.

Che ne direste di questa ?

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Un caro saluto

Rattus