domenica 1 maggio 2011

Zen e Odissea?



L’esigenza di costruire una via occidentale al buddhismo e quella di saggiare quanto questa tradizione sia in grado di rispondere alle attuali esigenze di spiritualità presenti in Occidente si stanno facendo, da qualche tempo, sempre più sentite e palesi. Non si può, pertanto, non accogliere, con grande interesse ogni contributo che si muova in questa direzione. Il volume Tornare a casa–Un commento zen all’Odissea (tr. it., Roma, Edizioni La Parola, 2010) di Norman Fisher (scrittore, prete o, se si preferisce, monaco zen, abate del San Francisco Zen Center dal 1995 al 2000, fondatore e insegnante dell’Everyday Zen Foundation) allo scopo di adattare il linguaggio zen alla cultura occidentale tenta il confronto con l’archetipo del viaggio e con uno dei classici fondanti della nostra cultura, l’Odissea. Il viaggio è una metafora molto comune sia del pellegrinaggio dell’uomo alla ricerca del senso e dell’eternità sia della vita stessa. La funzione motrice ambulatoria permette all’uomo di uscire da un determinato luogo e di raggiungere nuovi spazi, ed è alla base del simbolismo di tutti i tipi di cammino, caratterizzanti l’uomo come essere itinerante o homo viator (G. Marcel). E parliamo, infatti, di cammino di perfezione, sentiero di purificazione, via di liberazione, percorso spirituale, itinerario mistico…. Esorta Fisher: «Considerare la vostra vita come una “odissea spirituale” è una verità metaforica. Vedere la vostra vita come un’odissea può aiutarvi a penetrare nei lati nascosti di tale vita» e i racconti di chi è tornato sono infatti preziose guide nel procedere verso quella che consideriamo la nostra meta autorealizzativa. Se le esperienze sono condivise non c’è niente da raccontare e solo chi si è allontanato da una comunità può portare oggetti e fare racconti di ciò che ha visto in terre lontane e agli altri è rimasto sconosciuto; attraverso il racconto si realizzano nuove e più ampie integrazioni e si forniscono strumenti di autoconoscenza: ecco il valore delle narrazioni, dei racconti dei cacciatori, dei miti, di tutte le storie da quelle di Odisseo fino al Ho visto…! di Zavattini. Con l’Odissea, si può ben dire, nasce l’arte del narrare e dell’autobiografia.
La cultura occidentale ha molto lavorato sull’archetipo del viaggio e sulla figura di Odisseo, il prisma ha scomposto la luce e non ci è più consentito un contatto sine glossa. L’Odissea è un libro misterioso, dalle mille letture, ha nutrito tutta la letturatura occidentale e Odisseo è un uomo complesso, dalla mente dai mille colori (P. Citati, La mente colorata). Fisher, buon (o mal) per lui, tenta di far “reagire” a freddo questi archetipi con la tradizione buddhista. Ma, tanto per cominciare, tra le diverse persone in movimento, si era fatto lo sforzo di distinguere l’esule, il fuggiasco, il vagabondo, l’avventuriero, il nomade, il pellegrino, il viandante, l’ errante, il turista e il viaggiatore… ognuno con una sua tipologia, un suo linguaggio, un suo procedere, ciascuno avendo ricevuto specifiche analisi, letteratura, musica. Non basta dire che Odisseo è un viaggiatore perché dobbiamo anche domandarci che tipo di viator sia. Se per J. Giono (Nascita dell’Odissea) Odisseo è solo un abile “mentitore”, un cantastorie che non ha vissuto nulla di ciò che racconta e ci fa interrogare sul sottile confine che nella letteratura separa verità da invenzione, per Fisher il viaggio dell’Odissea è «un viaggio di ritorno» e Odisseo «non è un brillante eroe alla ricerca di qualcosa, che persegue la vittoria, la gloria»; pur se lo ha fatto in passato, ora «sta combattendo per tornare da sua moglie Penelope a Itaca, la casa che aveva lasciato venti anni prima» («siamo già arrivati ad Itaca e non abbiamo bisogno di andare in nessun altro luogo»). Questo Odisseo, però, non è l’Odisseo che abbiamo amato e col quale riteniamo utile confrontarci; direi che non è il molto più problematico Odisseo dell’Occidente. A cominciare dallo stesso Omero che, sul finire del Poema ci racconta di come, con timidezza e timore, informa la moglie Penelope che «non siamo al termine ancora di tutte le prove, ma vi sarà in futuro una prova senza misura, lunga e difficile, che occore io compia tutta» (Od., XXIII, 248 ss.): dovrà rimettersi in viaggio avendogli Tiresia detto che dovrà «andare in molte città/di mortali» (267).
«Il richiamo emotivo di casa è irresistibile […], dobbiamo tornare a casa. Sembra che non ci siano altre possibilità», dice Fisher, mentre sappiamo che gli affetti familiari non «vincer potero dentro a me l’ardore/ch’i’ ebbi a divenir del mondo esperto,/e delli vizi umani e del valore;/ma misi me per l’alto mare aperto» (Inf. XXVI, 97 ss.). Ed eccolo, «bello di fama e di sventura» (Foscolo), esortare i compagni, alla suprema impresa, dicendo: «Considerate la vostra semenza:/fatti non foste a viver come bruti,/ma per seguir virtute e canoscenza» (118 ss.). Dante uomo ammira dunque Odisseo, anche se Dante teologo deve punirne l’ardimento.
Per restare nella letteratura di casa nostra, non si può non ricordare A. Graf, che, nel suo L’ultimo viaggio di Ulisse (1901), mostra come, al passar degli anni a Itaca «a poco a poco/d’Ulisse il labbro ammutolì, l’arguto/riso, onde gli atrii già sonar, fu muto,/e una torbida nube il guardo acceso, l’ampia fronte oscurò. […] Sottil come tossico un disdegno/di sé stesso e d’altrui lento serpeva/nelle vene d'Ulisse; e qual si leva/da ree paludi accidiosa e tetra/nebbia che infosca il sole, occupa l’etra,/tale in Ulisse si levava il tedio/e al cor poneagli ed alla mente assedio». E, infatti (G. Pascoli, L’ultimo viaggio, 1904), «Sonno è la vita quando è già vissuta:/sonno; ché ciò che non è tutto, è nulla». Come la nave «non vuole il rosichìo del tarlo,/ma l’ondata, ma il vento e l'uragano» anch’egli dice: «la nube voglio, e non il fumo;/il vento, e non il sibilo del fuso,/non l'odïoso fuoco che sornacchia,/ma il cielo e il mare che risplende e canta». Quindi, Odisseo partirà perché, in effetti, è proprio al di fuori del viaggio che «sembra che non ci siano altre possibilità». Secondo Dante, nel «folle volo» c’è tracotanza, una dose di hybris che merita l’Inferno. Ma, osserva A. Savinio (Capitano Ulisse), «che figura farebbe Ulisse tra le Vergini e i Padri della Chiesa? Quaggiù Ulisse ha soffero di noia. Perché aggiungere alla sua noia terrena una noia celeste senza rimedio? Perché costringerlo a una musica che non gli va, a una società che lo avrebbe trattato come un cane in chiesa?» Via dalla casa, dunque, verso la conoscenza e l’Infinito: altro che ritorno! Dice il poeta greco K. Kavafis: «Se per Itaca volgi il tuo viaggio,/fa voti che ti sia lunga la via,/e colma di vicende e conoscenze».
Il viaggio non è qualcosa che ha un inizio e una fine, è un modo di esistere, di  vivere in un continuo, inesorabile andare e tornare. Se volessimo dirla con lo zen, la porta è senza porta, la casa è senza casa, il ritorno è un non-ritorno. C’è la stasi e c’è il movimento, c’è l’adrenalina e c’è l’acetilcolina, c’è il mangiare e c’è il digerire. Intendiamoci bene: se Pascal («quando talvolta mi sono accinto a considerare le diverse agitazioni degli uomini e i pericoli e le pene cui si espongono a corte, in guerra, e che sono causa di tante liti, di tante passioni, di tante ardite imprese e di tante azioni spesso cattive ecc., ho scoperto che tutta l’infelicità degli uomini proviene da una cosa sola: dal non saper restare tranquilli in una camera») o Schnitzler («Crederemo sempre di essere in cammino, anche se siamo già alla meta. L’ultimo errore dell’umanità) elogiavano la stasi non si riferivano a pigri, fannulloni e accidiosi, né l’agire dantesco va confuso con l’inoperoso affaccendarsi di un insufficiente mentale o con l’insano agitarsi consumistico. Ulisse è sempre in viaggio perché la consapevolezza è in movimento, è il movimento, in esso si attua la realizzazione dinamica della Vacuità. Come la bicicletta non sta in piedi se non cammina, Ulisse deve andare se vuol essere sé stesso.
Bronislaw Malinowski, che aveva studiato i costumi degli isolani delle Trobiand, riferisce che lì, in occasione di una spedizione, il capitano della flotta si rivolge alla folla sul lido dicendo: «Donne, noialtri partiamo, voi rimanete nel villaggio a badare ai giardini e alle case; dovete rimanere caste. Quando andate a far legna nella boscaglia nessuna di voi rimanga indietro. Quando andate nei giardini a lavorare, mantenetevi unite. Ritornate insieme alle vostre giovani sorelle». Casta rimane Penelope e l’amore è nell’incontro col ritrovato Odisseo («Quei due si saziarono con l’amore desiderato», XXIII,  300). Dunque, partire è maschio, stare è femmina, tornare è erotico: questo il viaggio e su questi punti avremmo gradito un confronto da parte di chi, appartenente al buddhismo mahayana, certamente ne condivide la verità fondamentale della coincidenza di nirvana e samsara.  
Dopo alcune (facili) osservazioni su noti episodi della storia di Odisseo (le Sirene, il Ciclope, i lotofagi, Circe…), il tema del dolore e della morte è trattato sorvolando. Se pur bisogna riconoscere all’Autore (quando afferma: «il dolore è una condizione che fa parte dell’essere vivi») il merito di non schierarsi tra coloro che interpretano la verità dell’origine della sofferenza come un’affermazione circa la sua natura come conseguenza del desiderio, scaricando così sulle deboli spalle dell’uomo la responsabilità del male nel mondo (in analogia col mito giudaico-cristiano del peccato originale), il rimedio è visto da Fisher in una apertura che faccia «sentire tutto il mondo pienamente, in maniera spontanea, armoniosa e amorevole». Di fronte alle catastrofi naturali, alle malattie, alle crudeltà, alle guerre, ai tradimenti, proporre ancora una volta lo sguardo armonizzante appare non solo gratuito, ma pericolosamente giustificazionista del mondo e poco compassionevole dei sofferenti («i disastri sono qualcosa di naturale e di utile, anche se non ci piacciono. […] Per essere felici abbiamo bisogno di riconoscere e apprezzare i disastri»). Con la ricorrente parola “accettazione” (contrabbandata come sinonimo di constatazione) si insinua quell’anti-intellettualismo, presente in tanta parte del buddhismo, per cui spegnendo la domanda, togliendo il giudizio, estinguendo il soggetto si eliminano male e dolore. Quanto dà fastidio questo povero, impermanente, ma prezioso soggetto cosciente! E se di una qualche conciliazione abbiamo pur bisogno riconosciamo che quella che possiamo realizzare è una tragica conciliazione con l’inconciliabile!
Interessante è la pagina sul perdono, ove l’A. parla non solo di perdonare noi stessi e gli altri, ma addirittura di perdonare Dio (non osando dire Realtà ultima o Dharma, come sarebbe più proprio per un buddhista). Ma si può perdonare chi viene considerato perfetto? Di fronte alle iniquità di cui è pieno il mondo, se le pensiamo come risultato di un disegno intelligente dovremmo riconoscere che solo un ente irresponsabile o maligno potrebbe esserne l’autore e meritare, proprio per la sue insufficienze, il nostro perdono, ma non ciò che riteniamo principio di perfezione. Dunque, attenzione a questi tranelli retorici “collaborazionistici” e risvegliamo piuttosto di fronte a essi la nostra coscienza (buddhista) di martiri attivi.
L’insistenza sul motivo del ritorno a casa («la pratica spirituale, in tutte le sue manifestazioni, è la pratica del tornare a casa»), «alla nostra vita reale perché sappiamo che è a essa che apparteniamo» ci desta un sospetto: che cosa l’A. identifica con casa? Diffidiamo ormai dei consolatori dell’armonia e del “tutto si aggiusta” (come si esprimeva anche un immarcescibile esponente della nostrana DC). Che tipo di “pace” viene prospettata? Quella, secondo le parole di un altro “consolatore”, di «essere ciò che siamo da sempre: ciò che precede la nascita e sopravvive alla morte», cioè il non-pensiero del prima e del poi? È questa la “casa” che dovremmo desiderare? A una analoga domanda, rispondeva W. Allen, col suo noto caustico umorismo: «Non mi interessa vivere nel cuore degli americani; preferisco vivere nel mio appartamento».
In conclusione, sembra si debba dire, per restare nella metafora, che il confronto ha ancora molta strada da fare.

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