sabato 17 aprile 2010

Vita aperta#2

«L’uomo delle società in cui il mito è cosa vivente», osserva ancora Eliade, «vive in un mondo “aperto”, anche se “cifrato” e misterioso. Il Mondo “parla” all’uomo e, per comprendere questo linguaggio, basta conoscere i miti e dicifrare i simboli. […] In ultima analisi, il Mondo si rivela come linguaggio. Parla all’uomo con il proprio modo d’essere, con le sue strutture e i suoi ritmi». Aprire l’esistenza è, dunque, decifrare simboli, trovare esempi, sentire l’appartenenza al Cosmo. «In un mondo simile, l’uomo non si sente rinchiuso nel suo modo d’esistenza; anch’egli è aperto, comunica con il Mondo, perché utilizza lo stesso linguaggio: il simbolo. […] Se il Mondo è trasparente per l’uomo arcaico, anche questo si sente “guardato” e compreso dal Mondo. La selvaggina lo guarda e lo comprende (spesso l’animale si lascia catturare perché sa che l’uomo ha fame), come pure la roccia o l’albero o il giume. Ciascuno ha la sua storia da raccontargli, un consiglio da dargli» (Mito e realtà, tr. it., Roma, Borla, 1993, p. 175-77). I simboli aprono il Mondo e aiutano ad accedere all’universale: «L’uomo, in virtù dei simboli, esce dalla sua situazione particolare per “aprirsi” verso il generale e l’universale. I simboli risvegliano l’esperienza individuale e la tramutano in atto spirituale, in una presa metafisica del Mondo […]: comprendendo il simbolo è in grado di vivere l’universale» (S&P, p. 166); e il simbolo consente di «far fruttare questa esperienza individuale, “aprirla” verso l’universale» per cui avrà «adempiuto completamente alla sua funzione [se] avrà risvegliato la coscienza “totale” dell’uomo, rendendola “aperta” all’universo» (ibidem).

Cheng (scrittore, membro dell’Académie française) riprende l’espressione nelle sue Cinq méditations sur la beauté (Paris, Albin Michel, 2006) in un contesto diverso: riferendosi all’arte, dice innanzitutto che essa, «attraverso le sue forme sempre rinnovate, tende verso la vita aperta abattendo le chiusure dell’abitudine e provocando una maniera nuova di percepire e di vivere» (p. 122). La vera bellezza, l’autentica, «è quella che va nel senso della Via, stabilito che la Via non è altro che l’irresistibile marcia verso la vita aperta, un principio di vita che mantiene aperte tutte le sue promesse» (p. 36). Quando siamo di fronte a una cosa bella, «miracolosa entità di armonia, coerenza e risoluzione», sentiamo che «la bellezza è qualcosa di virtualmente là, da sempre là, un desiderio che sorge dall’interno degli esseri o dell’Essere, come una fonte inesauribile», desiderio di compiutezza. Una rosa, ad es., «si manifesta in tutto lo splendore della sua presenza, propagando delle onde ritmiche verso ciò a cui ella aspira, il puro spazio senza limiti. Quest’irrefrenabile apertura nello spazio è a immagine di una fonte che senza posa zampilla dal suo fondo» (p. 39). L’arte, dunque, come via e slancio verso una vita aperta, vita aperta alla pienezza di sé che coincide con la pienezza stessa dell’Essere, un Essere dinamico e vivo che senza fine si apre e sprigiona vita.

Quel che abbiamo visto per la religione e per l’arte si estende a tutta la vita spirituale. Cogliere il simbolico e l’univerale significa uscire dal contingente, cioè dal tempo e, quindi, dall’angoscia del parziale, del conflitto, della rovina: nell’universale c’è, infatti, un elemento di perfezione e di eternità. Tale compimento è, tuttavia, da intendere come un compimento dinamico, perché qualunque tipo di esperienza è soggetta alla legge dell’impermanenza.

Se, negli orientamenti dualistici, l’immagine dell’apertura sta a significare la rottura di livello che porta alla trascendenza del “totalmente altro”, diverso dal mondo delle differenziazioni fenomeniche, come può questa esigenza essere raccolta in un orientamento che non propone una rottura ontologica, ma un cambiamento di stato di coscienza?

La tradizione mahayana ha parlato di dieci mondi, che descrivono le esperienze, dalle più miserevoli (inferno) alle più beatifiche (mondo dei Buddha). L’apertura, in questo contesto, sarà non rimanere chiusi in uno dei mondi-livelli inferiori, ma sollevarsi a quello dei bodhisattva e, infine, a quello della contemplazione buddhica. Ciò non significa che l’esperienza dell’uomo (di questa sola possiamo parlare) possa essere trascesa in una vita di totale e permanente pienezza (di amore, bellezza e verità): la “maledizione” della discontinuità, di cui parlava Eliade, legata alle esperienze del sacro o, in genere, di totalità, “consente” che esse siano vissute solo per un tempo limitato poiché ogni esperienza vive nel tempo e non può sottrarsi all’impero dell’impermanenza: in altre parole, ci è concessa l’apertura verso l’infinito, ma solo nell’“intermittenza del cuore”... Ma questa intermittenza non ha, comunque, il potere di oscurare il miracolo della coscienza, la struttura alla quale più che a ogni altra si addice l’attributo di “aperta”: aperta alla Realtà, che la Realtà afferma e che della Realtà costituisce il senso. La Vita, come realtà “aperta”, rimane in attesa dell’azione creativa umana, prosecuzione della creatività e dell’espansione del Dharma eterno.

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