Marco Tullio Cicerone (106-43 a. C.) è collocato, dal punto di vista filosofico, tra gli eclettici. Egli anzi offre, come scive G. Reale, «il più bel paradigma di pensiero eclettico, che è come dire il più bel paradigma della più povera delle filosofie, e, in certo senso, la più antispeculativa delle speculazioni». Tuttavia, egli ebbe il grandissimo merito di avere svolto un lavoro di divulgazione e di diffusione della filosofia greca nell’area della cultura romana.
Il tema della consolazione sembra particolarmente adatto per essere affrontato da un eclettico-divulgatore come lui. Cicerone, infatti, dedicò all’argomento il De consolatione, del 45, in occasione della morte di sua figlia Tullia (opera di cui restano soltanto dei frammenti), e molte pagine delle Tusculanae disputationes. Nel libro III di queste, Cicerone elenca, sinteticamente, i metodi offerti dalle varie scuole, optando per un approccio integrato o eclettico, di tipo — si direbbe oggi cognitivo-comportamentale. Nei §§ 75-79 leggiamo:
(75) Questo è dunque il dovere dei consolatori, togliere dalle radici la tristezza, o calmarla, o diminuirla il più possibile, o fermarla impedendole di espandersi ulteriormente, o deviarla su altri obiettivi. (76) Alcuni pensano che il solo compito del consolatore sia quello di far capire che il male non esiste, come sostiene Cleante. Altri, che il male non è grave, come dicono i peripatetici. Altri spostano l’attenzione dal male al bene, come Epicuro. Per altri è sufficiente dimostrare che non è successo niente di imprevisto, come i cirenaici. Crisippo pensa che la cosa capitale sia togliere dalla persona sofferente l’idea di svolgere una funzione giusta e dovuta. Altri mettono insieme tutti i vari generi di consolazione, giacché ogni persona si lascia toccare da argomenti diversi, come ho fatto io stesso nella mia Consolazione riunendo i vari argomenti: il mio animo era gonfio e dovevo tentare ogni genere di cura.
Ma bisogna anche cogliere al momento giusto le malattie dell’anima non meno che quelle del corpo, come il Prometeo di Eschilo, a cui vien detto: «Penso che tu sappia, Prometeo, che la parola può curare la collera». E lui risponde: «Sì, se si applica il farmaco in tempo, e non si irriti la ferita con una mano pesante».
(77) Nella consolazione, dunque, il primo rimedio è insegnare che non c’è nessun male o almeno non grande; il secondo è addurre la comune condizione umana e le caratteristiche specifiche, se ce ne sono, della persona sofferente; il terzo mostrare che è sommamente sciocco farsi vincere dalla tristezza, pur sapendo che non se ne trae nessun vantaggio. Cleante infatti consola il sapiente, che non ha bisogno di consolazione; e se chi soffre tu lo persuadi che non esiste nessun male tranne ciò che è disonorevole, gli togli non già il dolore, ma l’ignoranza: peraltro l’occasione non è propizia all’insegnamento. Eppure a me sembra che Cleante non abbia considerato abbastanza il fatto che la tristezza può nascere talvolta proprio da quello che lui considerava il sommo male. Cosa diremo infatti di Socrate che, secondo la tradizione, persuase Alcibiade di non essere un uomo e che tra lui, il nobile Alcibiade e un qualunque facchino non c’era nessuna differenza, quando Alcibiade era addolorato e piangendo supplicava Socrate di insegnargli la virtù e di scacciare da lui il vizio? Che diremo dunque, Cleante? Che non c’era male in ciò che affliggeva Alcibiade? (78) E quali sono gli argomenti di Licone? Costui per sminuire la tristezza dice che è provocata da piccole cose, inconvenienti della fortuna o del corpo, non dai mali dell’anima. Ma ciò di cui si doleva Alcibiade non consisteva proprio nei mali e nei difetti dell’anima? Per quanto riguarda la consolazione di Epicuro ho detto abbastanza prima.
(79) Non è del tutto certa neppure la consolazione più usuale e spesso utile che dice «non a te solo questo è successo». È utile, dicevo, ma non sempre e non a tutti: c’è chi la respinge, ma fa differenza come viene adoperata. Ciò che è in questione infatti è come sopportò le sue disgrazie ognuno di quelli che le sopportarono con saggezza, e non già qual era la disgrazia da cui ognuno di loro fu colpito. L’argomento di Crisippo è oggettivamente il più solido, ma è difficile da usare in circostanze di dolore. È difficile provare a una persona sofferente che soffre per sua scelta e perché così ritiene di dover fare. E così come nelle cause non adottiamo sempre la stessa posizione — questo è il termine che usiamo per i generi di controversie ma la adattiamo alla circostanza, al tipo di controversia, alla persona — altrettanto nella consolazione bisogna considerare quale tipo di rimedio ogni persona può ricevere.
Ritroviamo qui argomentazioni che presentano forti analogie con insegnamenti che vengono dalla tradizione del buddhismo della scuola antica; su questi, in particolare, vorrei soffermarmi.
L’argomento della generalità del dolore ci rimanda alla storia di Kisagotami, la donna che, disperata per la perdita di un figlio, viene invitata dal Buddha a portargli un grano di senape da una casa in cui non ci sia stata alcuna morte. La donna, non trovandola, viene messa di fronte alla universalità e della inevitabilità della morte: «credevo di essere solo io a soffrire, ma ho visto che la morte è in ogni casa del villaggio e i morti sono più numerosi dei vivi». La constazione che la morte non è qualcosa di personale («non tibi hoc soli») avrebbe liberato la donna dalla sua disperazione e, sulla base di un gratuito automatismo che dalla constatazione va alla accettazione, Kisagotami sarebbe risultata “illuminata”. Argomentazione debole, che ha un senso solo come ammonimento a non enfatizzare la propria condizione, ma che non porta a elaborare nessuna coscienza tragica della condizione umana. Cicerone, giustamente, la introduce con prudenza, guardando piuttosto all’esempio che può venire offerto in occasione delle sventure: «Ciò che è in questione infatti è come sopportò le sue disgrazie ognuno di quelli che le sopportarono con saggezza, e non già qual era la disgrazia da cui ognuno di loro fu colpito».
La consolazione offerta da Crisippo (il male dipende di nostri giudizi e dalla nostra volontà) appare a Cicerone validissima sul piano teorico, ma «difficile da usare in circostanze di dolore. È difficile provare a una persona sofferente che soffre per sua scelta e perché così ritiene di dover fare». Secondo questa visione, il male è nella coscienza (del male) e nel “consenso” che viene dato al giudizio. Analogamente, nel Discorso della freccia, il Buddha dice: «È come se, o monaci, un uomo fosse colpito da una freccia e subito dopo fosse colpito da un’altra, cosicché egli, o monaci, percepirebbe i dolori di due frecce. Allo stesso modo, o monaci, l’uomo ordinario, che non ha ricevuto gli insegnamenti spirituali, quando viene toccato da una sensazione dolorosa soffre, si affligge, si lamenta, piange battendosi il petto, entra in uno stato di grande confusione. Egli sperimenta due tipi di sensazione: una corporea e una mentale». Per il saggio ciò che è veramente male è la turpidudine, ciò che è disonorevole, il resto o non può essere visto come male o è un «male così piccolo che viene oscurato dalla sapienza e lo si scorge a fatica, questo perché il sapiente non inventa né aggiunge elementi all’afflizione per via dell’opinione, e non ritiene giusto tormentarsi il più possibile e lasciarsi consumere dal lutto, che è il peggiore degli atteggiamenti possibili». Anche qui, se il discorso è finalizzato alla moderazione, alla misura, al controllo del comportamento, siamo in presenza di un insegnamento più che valido e opportuno, ma non è più così se si cade in un atteggiamento anti-intellettualistico e ci si propone l’obiettivo di negare il giudizio, “riducendo” e annullando il soggetto. L’avversione, la rabbia (diversamente dalla indignazione etica) sono frutto di separazione e aumentano certamente la sofferenza, per cui l’atteggiamento del saggio sarà quello di vivere con un attaggiamento non-dualistico gli inevitabili dualismi dell’esistenza, al fine di non-soffrire di soffrire, almeno fino a quando il dolore non sia tale da sopraffare la possibilità di controllo e la coscienza stessa, ma ciò non va confuso con la riproposizione dell’anti-intellettualismo filosofico, sul quale mi permetto di rinviare, a quanto ho già scritto in Ri-legature buddhiste, pp. 24 ss.
Comunque, da buon eclettico, Cicerone guarda al risultato e, al pari di un medico che vuole ottenere la guarigione di un ammalato, non si preoccupa troppo di privilegiare una determinata terapia, ma sceglie quella o quelle che ritiene più opportune per il suo paziente. Ovvero, da oratore qual è, dice anche: «come nelle cause non adottiamo sempre la stessa posizione (questo è il termine che usiamo per i generi di controversie) ma la adattiamo alla circostanza, al tipo di controversia, alla persona, altrettanto nella consolazione bisogna considerare quale tipo di rimedio ogni persona può ricevere». Pertanto, dopo aver elencato vari metodi, egli opta per un orientamento eclettico.
(continua)