Pirro (Pýrros, in greco, il rosso), 318-272 a. C., re dell’Epiro (piccolo regno tra l’Albania e la Grecia), fu uno dei principali nemici dell’espansione romana, aspirando ad estendere la sua egemonia in Italia e in Africa. Quando, nel 281, la città di Taranto (allora in Magna Grecia) gli chiese aiuto contro Roma Pirro ebbe un buon pretesto per inviare un potente esercito nel sud dell’Italia che riportò due vittorie, a Heraclea (oggi Policoro, Matera) e ad Ausculum (Ascoli Satriano, Foggia). Benché vincitore, Pirro perse la metà dei suoi uomini e i principali comandanti, lasciando sul terreno più di 13000 soldati. Successivamente sconfitto dai romani (275) e dai cartaginesi (anch’essi ostili alle sue mire espansionistiche) morirà tre anni dopo. Pirro, secondo gli storici, dopo le sue costose vittorie avrebbe pronunciato la frase «Un'altra vittoria come questa e tornerò in Epiro senza più nemmeno un soldato» (Paolo Orosio, IV sec. D. C.). Lo scontro tra le grandi potenze di allora ha lasciato un segno nella memoria collettiva e l’espressione “vittoria di Pirro” continua ad essere impiegata nel linguaggio sportivo, politico, etc. in occasione di vittorie che dànno più gloria che vero successo.
«Vittoria di Pirro» è una locuzione abbastanza semplice e c’è da augurarsi che (riferimenti storici noti o supposti tali) non venga maltrattata come è accaduto per la dantesca «mi fa tremar le vene e i polsi» (Inf., I, v. 90), dove i polsi sono le arterie pulsanti (e non la regione anatomica del polso!), volendo Dante dire che, ad es. per paura, questi vasi tremano venendo abbandonati dal sangue. Di essa abbiamo dovuto ascoltare varie deformazioni nell’uso politico, anche da parte di personaggi “rapprentativi”, per cui è diventata: «far tremare le vene dei polsi» (Prodi) o «fa tremare i polsi» (Casini), etc.
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