Il verbo “consolare” si riferisce all’azione di lenire il dolore che qualcuno prova per una disgrazia, una perdita, un malanno. La consolazione degli afflitti è anche una delle cosiddette opere di “misericordia spirituale”. La parola viene dal latino con- e solari, col significato appunto di mitigare, ma se solari è legato a sollus, intero, e quindi solo, si può dire che è l’aiuto che si apporta all’uomo solo col suo dolore (ad es., solari famen è soddisfare la fame). In questa famiglia di parole, spesso considerate sinonimi, penso vadano invece tenuti distinti il “conforto”, azione che dà forza per affrontare e combattere una situazione negativa, il “sollievo” che solleva, cerca cioè di allontanare uno stimolo nocivo o ridurre una condizione dolorosa in atto e la “consolazione” che tenta di attenuare un dolore dovuto a cause e condizioni che non si possono modificare. Viene impiegato anche il sostantivo “consolo”, non soltanto come sinonimo di consolazione, ma con i significati di vino drogato che si dava al condannato a morte per attutirne la viglilanza e — specie nell’Italia meridionale — di banchetto offerto o cibo inviato da parenti e amici alla famiglia del defunto nei primi giorni di lutto.
Nell’Antichità classica, “consolazioni” sono, di queste voglio parlare qui, le composizioni filosofico-letterarie, spesso redatte in forma di lettera, aventi la fisionomia di trattatelli morali, scritte al fine di consolare sé o altri di qualche dolore e, in particolare, della morte di una persona cara. Tra queste, sono da ricordare il De Consolatione di Cicerone, scritta per consolare il proprio animo della morte della figlia Tulliola (e di cui sono rimasti solo pochi frammenti), le Consolationes di Seneca (a Marcia, a Polibio, alla madre Elvia), quelle di Plutarco Ad Apollonium e Ad Uxorem. Fu la sofistica a dare il maggiore contributo alla costituzione di questo genere letterario che fa parte di un genere più ampio di scritti, aventi finalità analoga, quelli sulla tranquillità dell’anima.
Il primo autore che scrisse di una tέcnh ¢lup…aj (tecnica di liberazione dal dolore) sembra sia stato il filosofo e retore greco Antiphôn o Antifonte (V sec. a. C.), del quale, nelle Vitae X Oratorum (dello Ps.-Plut.), si narra di questa sua attività, precoce esempio di psicoterapia o consulenza filosofica: «Avendo allestito a Corinto un locale nei pressi del mercato, egli aveva affisso sulla porta un cartello in cui affermava di possedere una tecnica per curare le angosce delle persone mediante le parole. Consentendo loro di conoscere le cause delle proprie malattie, egli poteva prescrivere immediatamente il rimedio, a loro conforto. Ma dopo qualche tempo, valutando quell’attività come non rispondente alle sue attese, egli si dedicò allo studio e all’insegnamento dell’oratoria». Alla fine dell’Antichità la consolazione si insegnava nelle scuole di retorica e, come l’orazione funebre — della quale è parente stretta — era divenuta un esercizio scolastico. Era naturale che quindi ci fosse un repertorio di “luoghi comuni”, citazioni, esempi, da utilizzare nei modi opportuni secondo le circostanze. Per questo, attraverso lo studio delle composizioni consolatorie, possiamo conoscere il comune sentire sulla morte e sui modi di fronteggiare la sofferenza di fronte all’irreversibilità e ineluttabilità di tale evento.
Jean Hani, nel suo commento alla Consolatio ad Uxorem di Plutarco (ed. Les Belles Lettres), riporta quelli che sono i principali topici tradizionali delle consolazioni e cioè:
inopportunità delle consolazioni fatte in tempi sbagliati, che aggravano il dolore;
critica dell’afflizione eccessiva, nociva alla salute dell’anima e del corpo;
elogio di un dolore moderato che non comprometa l’integrità della pesona;
idea che l’afflizione è prodotta da una falsa opinione, per cui un corretto ragionamento potrà guarire il dolore restituendo costanza e controllo di sé;
che la morte è inevitabile ed è nell’ordine della natura;
che le vicissitudini del destino fanno sì che la vita, che è breve, sia anche piena di mali;
che lo stato dopo la morte equivale a quello che precede la nascita;
che le nostre disgrazie non sono paticolari e individuali, ma comuni a tutti;
che la morte inroduce il defunto nella vera patria, quella celeste;
che il miglior mezzo che abbiamo per onorare i nostri morti, e assicurare la pace della nostra anima, è quello di coltivarne il ricordo. (continua)
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