domenica 23 agosto 2015

Roma#18/La Casa rossa


In via Sabazio, 34, nella cosiddetta “Casa rossa”, aveva sede il salotto culturale dello scultore Giuseppe Mazzullo (1913-88), dove si incontravano durante l'occupazione tedesca e nel dopoguerra molti intellettuali, tra cui Guttuso, Vespignani, Zarattini, Alberto Moravia ed Elsa Morante.

(foto RV)
(foto RV)


giovedì 7 maggio 2015

Schermaglie#40/Bresson e la ricerca del sacro Graal

Robert Bresson (1901-99) è stato uno dei registi più rigorosi, dallo stile asciutto e curato, che nulla ha concesso all’industria del cinema, tanto che a volte vien fatto di domandarsi come sia riuscito a realizzare i suoi film.
Tra i suoi 13 lungometraggi, Lancillotto e Ginevra (Lancelot du Lac) è del 1974 e si ispira alle opere di Chrétien de Troyes, scritte verso il 1170 e dedicate alla leggenda dei Cavalieri della tavola rotonda, vassalli del re Artù, mitico personaggio che sarebbe vissuto tra il V-VI dell’era volgare. Questo gruppo di cavalieri si era data, come particolare missione, quella della ricerca del sacro Graal, il calice in cui Giuseppe di Arimatea avrebbe raccolto il sangue di Gesù e mai più ritrovato. Senza entrare in questa storia e sul significato della reliquia, storia che da allora è continuata fino ai giorni nostri, diciamo subito che Bresson non ha voluto fare nessuna ricostruzione storica: il suo film si colloca infatti, al di là del tempo, e assume un significato archetipico, pur legato al mito del Graal (inutile discutere se ci troviamo di fronte a una rappresentazione della crisi del mondo della cavalleria o altro). Il film inizia con il ritorno a mani vuote di Lancillotto e dei suoi, che non hanno trovato la reliquia e questo qualifica subito il cavaliere come un “perdente”, che è altresì carico della colpa di amare Ginevra, la moglie del re Artù, al quale egli è, per altro, assolutamente fedele. Gelosia, conflitti, complotti portano alla fine a uno scontro tra fedeli e traditori. Lancillotto e i suoi moriranno, e si chiude così tragicamente la loro storia, che per noi oggi ha il valore di una racconto esemplare sul costo della fedeltà, sull’impossibilità dell’amore, sulla ricerca e il silenzio di Dio.
I cavalieri “imprigionati” dalle loro armature si muovono come automi, dominati dal loro destino e fedeli ad esso, robot dai quali tuttavia vediamo spesso il sangue filtrare all’esterno dalle ferite al di sotto delle armature che celano il corpo e la loro umanità. Bresson narra la tragedia del fallimento con una regia da maestro, in cui impiega un alternarsi di scene buie (anticipazioni di morte) e altre luminosissime (elogio del valore e apertura alla speranza), un sonoro con continui cigolii sinistri delle ferraglie e nitriti fuori campo dei cavalli trascinati nel destino dei loro padroni, inquadrature preziose come dipinti (in particolare nella sequenza del torneo).
Un film bellissimo, fortemente angoscioso, da avvicinare con rispetto e concentrazione: una vera espressione di cinema spirituale.


martedì 5 maggio 2015

Cariatidi e dintorni#50/Roma, via Veneto

via Veneto angolo via Campania

(foto RV)

martedì 28 aprile 2015

Freud, Dostoevskij e il patimento

Nel 1925, in occasione della pubblicazione a Monaco di una serie di volumi dedicati alle opere di Dostoevskij, Freud fu invitato a collaborare con un suo saggio. Lo scritto, intitolato Dostoevskij e il parricidio, ha la data del 1927 ed è ormai inserito nel vol. X delle Opere di Freud. In esso Freud afferma che «I fratelli Karamazov sono il romanzo più grandioso che mai stato scritto, l’episodio del grande inquisitore è uno dei vertici della letteratura universale, un capitolo di bellezza inestimabile»
Per Freud l’essenza dell’opera è da ricondurre al tema del complesso edipico, centrale nella psicoanalisi: «Non è certo un caso che tre capolavori della letteratura di tutti i tempi trattino lo stesso tema, il parricidio: alludiamo all’Edipo re di Sofocle, all’Amleto di Shakespeare e ai Fratelli Karamazov di Dostoevskij. In tutte e tre le opere è messo a nudo anche il motivo del misfatto: la rivalità sessuale per il possesso della donna». Se ciò è sufficiente a spiegare l’entusiasmo freudiano, sia consentito domandare il permesso di dissentire. Il romanzo è uno dei grandi romanzi fiume ottocenteschi, di quelli che uscivano a puntate sui giornali (nel caso, tra il 1879 e il 1880 su Il messaggero russo) e che gli autori componevano strada facendo: infatti, risulta prolisso, con storie che si sovrappongono, si intersecano e si perdono, lasciando poi incompiute quelle dei personaggi principali: Dostoevskij morirà appena un paio di mesi dopo l’uscita dell’ultima puntata. I personaggi sembrano costruiti per rispettare lo stereotipo dell’intellettualoide slavo, velleitario nelle sue idee e pazzoide nel comportamento. Impossibile identificarsi con essi e anche l’unico personaggio che dovrebbe essere “positivo”, il minore dei fratelli, Alëša è un imbambolato e immaturo semi-monaco, abbandonato  alle soglie della maturità e che non si sa che fine farà. Intorno, una quantità di femmine folli, a volta a volta generose e sfruttatrici, fedeli e infide.
Quanto al “pezzo forte” della Leggenda del grande inquisitore, assistiamo allo scontro tra un Gesù che ritorna, quasi di nascosto sulla Terra, a Siviglia, «nel periodo più atroce dell’Inquisizione, quando, per la gloria di Dio, nel paese ardevano i roghi» degli eretici. Gesù ricomincia il suo equivoco itinerario: vuole “completare” la Legge e chiede una adesione libera al suo messaggio, ma non si astiene dal compiere qualche miracolo che entusiasma le folle: se avesse voluto avrebbe potuto veramente cambiare il mondo e non solo promettere di farlo in un indefinito futuro alla fine dei tempi. “Giustamente”, l’inquisitore, qui eletto da Dostoevskij a rappresentate della politica della Chiesa cattolica, lo fa imprigionare e minaccia di mandarlo al rogo, perché Lui è venuto a perturbare l’assetto che la Chiesa ha costruito, ingannando il popolo, ma dando una credibilità al messaggio evangelico e realizzando una struttura di potere che garantisce l’ordine e alimenta la speranza di felicità. Poi non se ne fa niente e l’inquisitore dice  a Gesù (che rimane in silenzio e non giustifica questo suo ritorno in incognito) di non farsi più vedere. Tutta la questione dell’adesione e dell’amore libero e non condizionato dai miracoli e dalla potenza del Cristo oggi appare priva di fondamento (v., per quanto mi riguarda, il post del 120315 sul Libero arbitrio) e, forse, di interesse.
Altro grande tema, quello della colpa. Poiché tutti hanno desiderato uccidere il proprio padre si ha una “diffusione” della colpa, in cui non ha più importanza la distinzione tra l’esecutore materiale, il mandante, l’ispiratore... per cui cambia poco che la punizione, venga inflitta al vero colpevole o a un innocente, la pena venendo così cristianamente ad assumere un valore redentivo. Il tema libertà-responsabilità-colpa è di quelli di cui le scienze umane e le neuroscienze stanno ora tentando una profonda reimpostazione e non ci possiamo più accontentare della poetica visione di Dostoevskij.
Viceversa, con il punto nel quale Ivàn parlando della sofferenza innocente (di coloro, come i bambini e gli animali, che non hanno conosciuto la differenza tra il bene e il male e quindi non hanno scelto) rinnega i discorsi sull’armonia del mondo e dice: «mi affretto a restituire il mio biglietto d’ingresso. E se sono un uomo onesto, devo restituirlo il più presto possibile», Dostoevskij ha dato un efficace contributo letterario a quello che denominerei “ateismo morale”. Riprendendo un tema antico, che va da Epicuro a Voltaire, ciò che non si può più accettare è l’immagine di un Dio onnipotente che resta insensibile di fronte al dolore o, peggio, lo “utilizza” in un  disegno, in cui la sofferenza diviene il tributo da pagare per edificare un destino di felicità per l’umanità. Dostoevskij non sviluppa il ragionamento, non trae le conseguenze che metterebbero in crisi la sua visione, pensa di potersene uscire con le parole di Alëša che, in riferimento a Gesù, dice che c’è un Essere che «può perdonare tutto a tutti e per conto di tutti perché lui stesso ha dato il suo sangue innocente per tutti e per tutto»: ovviamente, se non esplicitiamo che il Cristo è cooptato nella regalità trinitaria e quindi complice del dolore da cui avrebbe potuto/dovuto liberare l’umanità.
Occorrerà arrivare ai nostri giorni per trovare teologi più coraggiosi e meno disposti ad accettare scambi o silenzi, basati su prudenze e connivenze. Due esempi: Pietro Stefani, per il quale «il rinvio della giustizia all’aldilà, la volontà di affermare che alla fine i conti torneranno» comporta una strumentalizzazione della sofferenza [...] «il dolore che ha uno scopo è sempre la sofferenza meno accettabile, proprio a causa del suo essere giustificata in partenza, venendo in tal modo privata della sua dimensione scandalosa. Apparentemente, sostenere che il soffrire ha senso sembra la via più conforme per renderlo accettabile: in realtà diventa il motivo più paradossale per rifiutarlo. Se il male ha uno scopo esso non è più davvero tale» (in La leggenda del grande inquisitore, conversazioni radiofoniche con G. Zagrebelsky e altri, a cura di G. Caramore, Brescia, Morcelliana, 2003). Vito Mancuso onestamente riconosce che il mondo buono non è e che «c’è una immensa fatica diffusa in tutte le cose, un abisso di sofferenza, uno spreco infinito. Il mondo. Guardarlo a partire dal sangue versato per il suo progredire, guardarlo facendosi attraversare da quel dolore innocente che nessun ritorno evolutivo potrà mai giustificare». E allora «il mondo merita di essere amato? Oppure, a causa del prezzo altissimo di dolore che esso impone, meriterebbe ben altro, cioè disprezzo, avversione, persino odio, o solo noncuranza e distacco? E qual è il punto di vista più maturo per guardare questo mondo nel quale siamo capitati nascendo? […] Qualcuno dice l’amore. Ma che cos’è, da dove viene l’amore? È un risultato del lavoro del mondo oppure una contraddizione del lavoro del mondo? È l’applicazione più coerente della logica cosmica oppure ne è una trasgressione e un’eresia?» (Il principio passione, Milano, Garzanti, 2013). Anche questi Autori tendono, ovviamente, a qualche “ricomposizione” futura: non potendo chieder loro di più, dobbiamo prendere atto dello sforzo che comporta, per un teologo cristiano, il riconoscimento che i conti non tornano ancora (e neppure nei tempi ultimi di Apocalisse, 6) e che Dio, per una teologia che si è liberata dalla teodicea, possa essere visto proprio come «il luogo in cui si può dire che il male è “scandalo” e non un evento “comune”» (Stefani).

lunedì 20 aprile 2015

Occidente e rinascite

La rinascita (o reincarnazione o trasmigrazione) è, in Oriente, sentita come una sventura, una sorta di “punizione”, necessaria per raggiungere una purificazione completa (evidentemente non realizzata nell’ultima vita da cui si è usciti) attraverso una nuova esistenza e nuovi dolori per realizzare la estinzione finale e mettere un termine definitivo alle sofferenze (Nirvana come estinzione): tutt’altro che una nuova opportunità offertaci post mortem (o, come qualcuno ha detto, “un altro giro di giostra”)! L’esigenza di assicurare una continuità tra i fenomeni e l’esigenza etica di non lasciare senza alcuna sanzione le azioni “malvage” ha condotto a una concezione non priva di ambiguità (da cui espressioni come «prendere forma in una nuova nascita» pur senza passaggio «da un’esistenza all’altra», Milindapañha), esposta utilizzando analogie, a volte fuorvianti (analogia della lampada che viene accesa attraverso la fiamma di un’altra lampada), e basata sulla teoria degli “aggregati” (skandha), oggi poco significativa.
In definitiva, quello della rinascita (fuori o dentro il buddhismo) appare un problema mal posto, basato su un errore linguistico, che ha scambiato il verbo (che indica una funzione) col sostantivo (che indica una cosa), errore da non sottovalutare se, come ricordava Michel de Montaigne, «la maggior parte delle cause degli sconvolgimenti del mondo sono grammaticali» (Saggi, II, XII). In altre parole, come risponderemmo se ci domandassimo: dove va il camminare quando non ci saranno più le gambe? O ancora: una candela accesa produce fiamma e luce, ma quando la candela si è consumata e spenta dov’è andata a finire la luce? Il messaggio contenuto nella dottrina buddhista dell’assenza di esistenza inerente dei fenomeni (e quindi del soggetto) si configura pertanto come una definitiva liberazione dal ciclo delle rinascite, avendo eliminato ogni residuo sostanzialistico che ha reso anche il dolore, da cui si cerca di liberarsi, impermanente. Ciò nonostante, l’idea della rinascita e il conseguente impegno  per la “liberazione”, continua a essere riproposta in Occidente da varie da scuole e insegnanti “orientali”.
A questo proposito, vale la pena di ricordare quanto E. M. Cioran affermava, nel suo stile ironico e provocatorio, su questi sforzo inutile: «La ricerca della liberazione si giustifica soltanto se si crede nella trasmigrazione, al vagabondaggio infinito dell’io, e se si aspira a porvi termine. Ma, per noi che non ci crediamo, porre termine a che cosa? A questa nostra durata unica, e infima? Essa è manifestamente troppo breve, perché meriti la fatica di sottrarvisi. Per il buddhista, è un incubo la prospettiva di altre esistenze; per noi la cessazione di questa, di questo incubo. Anzi, di incubi datecene piuttosto un altro, saremmo tentati di gridare, affinché le nostre disgrazie non finiscano troppo presto, affinché esse abbiano modo di seguirci per molte vite. La liberazione è una necessità soltanto per chi si senta minacciato di un supplemento d’esistenza, per chi paventi la fatica di morire e di rimorire. Ma per noi, condannati a non reincarnarci, a che scopo arrabattarci per affrancarci da un niente? Per liberarci da un terrore, la cui fine è già in vista? A che scopo, poi, inseguire una irrealtà suprema, quando tutto, quaggiù, è già irreale? Non vale certo la pena di sbarazzarsi di qualcosa di così poco giustificato. Di così poco fondato» (E. M. Cioran, Il demiurgo cattivo, tr. it., Milano, Adelphi, 1986, p. 112 s.).

giovedì 16 aprile 2015

Cariatidi e dintorni#49/Roma, via del Beato Angelico, Roma

In via Beato Angelico, che conduce all'ingresso di una cappella di Santa Maria sopra Minerva, in una vetrina di una bottega artigiana e (probabilmente) in vendita una cariatide di rara eleganza



(foto Pino Nicolosi)

lunedì 6 aprile 2015

Lunedì dell'Angelo

Lunedì dell'Angelo: rileggiamo questa poesia di Charles Baudelaire

Reversibilità
Angelo pieno di letizia, conosci tu l’angoscia,
 i singhiozzi, le onte, le accidie, i pentimenti,
 le notti insonni piene di confusi spaventi,
 che comprimono il cuore come un foglio che viene accartocciato?
Angelo di letizia, conosci tu l’angoscia?
Angelo pieno di bontà, conosci tu l’odio, i pugni stretti dentro l’ombra e le lacrime di fiele,
 quando la Vendetta suona a infernale raccolta e si fa capitano delle nostre virtù?
 Angelo di bontà, conosci tu l’odio?
Angelo pieno di salute, conosci tu le Febbri, di quelli che se ne vanno lungo i muri scialbi dell’ospizio, come esuli,
 con piede malfermo e con tremanti labbra cercando un raro sole?
 Angelo pieno di salute, conosci tu le Febbri?
Angelo pieno di bellezza, conosci tu le rughe, 
la paura d’invecchiare e quel tormento orribile di leggere in occhi, dove i nostri attinsero avidi un tempo, il segreto orrore della devozione?
 Angelo di bellezza, conosci tu le rughe?
Angelo pieno di felicità, di gioia e di luci,
 Davide in fin di vita avrebbe domandato 
la salute agli effluvi del tuo corpo incantato,
 ma a te io non chiedo, angelo, che le tue preghiere,
 angelo pieno di felicità, di gioia e di luci!

Réversibilité
Ange plein de gaieté, connaissez-vous l’angoisse,

La honte, les remords, les sanglots, les ennuis,

Et les vagues terreurs de ces affreuses nuits

Qui compriment le coeur comme un papier qu’on froisse?

Ange plein de gaieté, connaissez-vous l'angoisse?

Ange plein de bonté, connaissez-vous la haine,

Les poings crispés dans l'ombre et les larmes de fiel,

Quand la Vengeance bat son infernal rappel,

Et de nos facultés se fait le capitaine?

Ange plein de bonté, connaissez-vous la haine?

Ange plein de santé, connaissez-vous les Fièvres,
Qui, le long des grands murs de l’hospice blafard,

Comme des exilés, s’en vont d’un pied traînard,

Cherchant le soleil rare et remuant les lèvres?

Ange plein de santé, connaissez-vous les Fièvres?


Ange plein de beauté, connaissez-vous les rides,

Et la peur de vieillir, et ce hideux tourment

De lire la secrète horreur du dévouement

Dans des yeux où longtemps burent nos yeux avides?
Ange plein de beauté, connaissez-vous les rides?

Ange plein de bonheur, de joie et de lumières,

David mourant aurait demandé la santé

Aux émanations de ton corps enchanté;


Mais de toi je n'implore, ange, que tes prières.