mercoledì 19 novembre 2008

Il mito dell’atemporalità

M. Eliade nelle sue indagini di fenomenologia della religione ha affermato che l’uomo religioso è dominato da un particolare terrore, il “terrore della storia”. È questo il vissuto che origina dal confronto col dolore, le calamità, la morte, che si dispiegano nel tempo e di fronte al quale nascono le domande religiose. Nell’homo religiosus è presente, infatti, una ribellione contro le iniquità e l’incompletezza dell’esistenza, che spinge a operare per controllare, circoscrivere e superare il negativo mediante un continuo riferimento a una realtà assoluta, radicalmente diversa da “questo” mondo, “totalmente altra” proprio perché è un Tutto non-duale e quindi diverso da ogni aspetto del mondo ordinario, diviso in frammenti e dominato dal dualismo. La storia è sventura e occorre fuggire e trascendere il “mondo”: poiché nel tempo avviene l’incontro dell’uomo con il dolore, nasce la volontà di abolire il tempo e la storia per riscoprire il territorio del totalmente altro, il mondo della “realtà” di fronte al mondo irreale ed effimero (quello che in Oriente viene chiamato il samsara), pieno di contraddizioni e di sofferenze. I miti delle origini, dell’età dell’oro, del peccato intendono narrarci la caduta nel tempo e le sofferenze di questo essere “che porta in sé e su di sé qualcosa di irreale e di non terrestre, che si svela nelle pause della sua febbrilità” (Cioran): ecco la nostalgia del Paradiso, il desiderio di Assoluto, l’esigenza del ritorno.

Ma abbastanza inedita e singolare, perché fatta da un filosofo tacciato di pessimismo, E. M. Cioran (come Eliade anch’egli romeno in esislio), è la riflessione su un’altra “caduta”. Dice Cioran: “Dopo aver sciupato l’eternità vera, l’uomo è caduto nel tempo, dove è riuscito, se non a prosperare, per lo meno a vivere: la cosa certa è che vi si è adattato. Il processo di questa caduta e di questo adattamento si chiama Storia. Ma ecco che lo minaccia un’altra caduta, di cui è ancora difficile valutare l’entità. Questa volta non si tratterà più per lui di cadere dall’eternità, ma dal tempo; e cadere dal tempo significa cadere dalla Storia; significa, una volta sospeso il divenire, arenarsi nell’inerzia e nel languore, nell’assoluto della stagnazione […]. Imminente o no, questa caduta è possibile, anzi inevitabile […]. Allora, avendo perduto finanche il ricordo della vera eternità, della sua prima felicità, egli volgerà lo sguardo altrove, verso l’universo temporale, verso quel secondo paradiso da cui sarà stato bandito”: sarà la costrizione, il decadimento del corpo, la vecchiaia e la previsione della morte, vera uscita dal tempo, con la sue nostalgie non più dell’Assoluto ma del relativo, di quelle (forse poche) “rose della vita” che tuttavia a noi è dato incontrare solo nel tempo e nella Storia.

Dobbiamo essere grati a Jung che, in occasione di un viaggio in India, di fronte all'idea del dissolvimento dell'io e della natura, ci ha lasciato una nota di grande sincerità e dalla quale possiamo ricavare un orientamento verso un’altra possibilità di significato: “La meta dell’indiano non è lo stato di perfezione morale, ma il nirvana. Desidera liberarsi dalla natura, e perseguendo questo scopo cerca nella meditazione l’assenza di immagini e il vuoto. Io, invece, desidero permanere in uno stato di viva contemplazione della natura e delle immagini psichiche, non voglio essere liberato dagli uomini né da me stesso né dalla natura: perché tutte queste cose mi sembrano indescrivibili meraviglie. La natura, l’anima, la vita, mi appaiono come la divinità dispiegata: e cosa potrei desiderare di più? Secondo me il significato supremo dell’Essere può consistere solo nel fatto che esso è e non che non è o non è più”. 

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