Quando le condizioni
psicofisiologiche lo consentono, la lettura dei quotidiani, le notizie radio o
TV costituiscono un legame sottile, ma tenace col “mondo”. Tuttavia — trovandomi in una situazione di forte disagio — sento rinnovarsi un dolore oscuro
già provato altre volte:
luglio 1943, ragazzino, gli smilzi
giornali del tempo di guerra ci dicevano che il 25 luglio cancellava quello a
cui eravamo stati educati fin dalla nascita e il 28 mio padre moriva (malasanità:
uno spericolato trattamento di autoemoterapia). Giorni per me devastanti, in
cui ero immerso nella malattia e nella incomprensibilità della morte di mio
padre e il mondo si allontanava nella sua indecifrabilità. Roma era stata
bombardata, era perfino difficile seppellire i morti e nella mia scuola (“Giulio
Cesare”) l’ufficio dove il sabato facevo il balilla furiere (mi rifugiavo lì per
fuggire le “adunate” paramilitari del sabato pomeriggio) veniva devastata,
tanto per fare una manifestazione “antifascista”.
Cosa potevo capire?
agosto 1968, ammalato di
salmonellosi, il martellamento della febbre alta veniva raddoppiato dal rumore
dei cingoli dei carri armati sovietici che invadevano Praga. Cosa succedeva?
Cosa voleva dire quell’oscuro conflitto tra “Paesi fratelli”? Il “tifo” non era
certo la condizione migliore per comprendere.
luglio-agosto 2013, nella attuale interminabile
broncopolmonite, una sentenza prova a cancellare un altro ventennio di storia
di questo Paese, nel clamore, odio, risentimento, senza darci possibiltà di
crescere e capire, con la solita frenesia del girare pagina senza sapere cosa
c’è scritto o che cosa ci sarà da scrivere in quella seguente.
Tanti anni sono passati, ma nelle
situazioni stranianti di fragilità, invalidità, malattia (penso a quei
televisori accesi negli ospedali...!), torna questo opprimente e angoscioso
vissuto di essere coinvolti e trascinati da “quel che accade là fuori”, nella
debolezza di sentirsi come naufraghi in una realtà lontana e inospitale.
La tradizione ha sempre giustamente avvertito che per una valida meditazione è necessario essere in uno stato di salute
buono. Nel caso di malattia, febbre, ottundimento, le possibilità si riducono
alle pratiche più semplici (come la concentrazione sul respiro: in, out), per
allontanarsi da dolori e scoraggiamenti. La meditazione non è una terapia. Don
Milingo (qualcuno lo ricorda?) diceva “credere per guarire”, io ho sempre
risposto “guarire per credere”.
Ancora
sull’impegno per “riprendersi”: avverto la tentazione di assumere la coscienza
del martire (lasciarsi andare, pur senza accettarle, alle “decisioni” misteriose
di una Volontà — Dharma, Natura, Dio, Tao... — ostile) che fa sentire come una
forma di indecoroso “attaccamento” alla vita il cercare di lottare contro la
malattia. Una motivazione eticamente più accettabile si può forse trovare nello sforzo per “ricambiare”
l’operoso impegno di chi amorevolmente ci assiste.
2 commenti:
Caro Riccardo,
la malattia semplifica e riduce quando non azzera. E in questa condizione di semplificazione e/o riduzione("guarda come si è ridotto", si dice, o ci si vergogna a mostrarsi perché "ridotti male"), la cosa più saggia e naturale da fare è forse assecondarla nel fisico, nella condotta, nei pensieri, nelle relazioni, nella trascendenza. David Maria Turoldo, avuta la diagnosi e prognosi infausta del cancro che lo aveva colpito al pancreas, scrisse una poesia (raccolta "Canti ultimi", 1991) che per me è esemplare di questo stato di semplificazione (ma per Turoldo non
ancora di "riduzione"); la riporto per intero:
Ieri all'ora nona mi dissero:
il Drago è certo, insediato nel centro del ventre come un re sul suo trono.
E calmo risposi: bene! Mettiamoci
in orbita: prendiamo finalmente
la giusta misura davanti alle cose;
e con serenità facciamo l'elenco:
e l'elenco è veramente breve.
Appena udibile, nel silenzio,
il fruscio delle nostre passioncelle
del quotidiano, uguale
a un crepitare di foglie
sull'erba disseccata.
"L'elenco è veramente breve". Chi sa e/o chi riesce ad abbandonarsi a questa semplificazione e poi
riduzione della/nella malattia, in cui si è fatalmente costretti e a cui però si vorrebbe resistere lottando (agone=agōn, gara, lotta, contesa), scopre, a volte in un modo folgorante, "la giusta misura" di sé, degli altri,
dei cosiddetti "problemi", ecc.
"Nel caso di malattia, febbre, ottundimento, le possibilità si riducono alle pratiche più semplici", questa tua
frase, che riferisci in particolare alla pratica della meditazione, ha ispirato questa mia riflessione e la isolo
affinché possa diventare principio non solo per la pratica della meditazione, ma per tutte le operazioni mentali e fisiche collocate entro l'orizzonte esistenziale della malattia ("semplificare le operazioni" è una "pratica algebrica" nella malattia, come anche algebrica è l'operazione di "riduzione").
Prima di salutarti non posso che accogliere con tenerezza e compassione, unendoli nel mio cuore, il ragazzino che sei stato nel 1943 e te, che ora ti chiedi per allora: "Cosa potevo capire?".
Semplicemente, ti voglio bene
Vito
HAIKU: L'ARMONIOSA SEMPLICITÀ della poesia giapponese
Pensando al processo di semplificazione nella/della malattia e allo stato di semplicità, mi ha colpito un haiku del grande poeta Matsuo Basho (1644–1694):
LA CAMPANA DEL TEMPIO TACE,
MA IL SUONO CONTINUA
AD USCIRE DAI FIORI.
...chissà il suono di quest'haiku in lingua originale!
Vito
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