Non eadem est aetas, non
mens/L’età non è più quella, e l’animo neppure
Puntualmente, da più di quindici anni
Amélie Nothomb non tradisce le attese dei suoi lettori e, fine agosto/primi di
settembre, pubblica (editore Albin Michel) un suo nuovo libro. Anche quest’anno
l’attesa non è andata delusa: ecco appena arrivato La nostalgie heureuse. Ma c’è del nuovo in questo inizio di autunno
letterario: ormai quarantenne, la brillante scrittrice ha probabilmente sentito
il bisogno di mettere un punto a capo, di fare i conti con sé stessa, di
interrompere una routine che poteva diventare troppo scontata e impegnarsi in
qualcosa di più maturo. I prossimi anni daranno una parola di verità su queste
esigenze, ma per ora leggiamo che ella ha sentito il richiamo del Giappone che
ha per lei un potere di guarigione: «So che ho bisogno di essere salvata. Da
che cosa? Da un insieme di cose di cui molte mi sono sconosciute. Se sapessi
precisamente quel che mi minaccia, sarei senza dubbio già salva». A tal fine
sente l’esigenza di ritornare appunto al Giappone e ritrovare la sua vita
giapponese, «che ha il merito di essere meno mescolata alle mie altre
esistenze. È anche questo che amo tanto del Giappone: ciò che ho vissuto è
sgombro da rumori o giri a vuoto. [...] Qualcuno potrebbe dire che in queste
condizioni qualunque Paese andrebbe bene. Io so che avevo bisogno d’essere
soggiogata, d’avere fede. Il Giappone suscita questo in me. È il solo». Chi ha
conosciuto il fascino e ha assorbito almeno qualche elemento della eleganza,
malinconia, delicatezza di quel Paese sa che questo è vero e insostituibile.
Da un lato, dunque, la Nothomb cerca
una sorta di salvezza dai suoi problemi attuali (per i quali adopera
disinvoltamente le parole di Racine «Il mio male viene da più lontano»), mentre,
d’altro canto, sembra sentire che questo deve passare attraverso una sorta di
riconciliazione proprio col suo passato giapponese. Strappata da quello che
considerava il suo Eden a cinque anni, tornata ventenne con poca
consapevolezza, ora i tempi sono per lei propizi per un addio più maturo a
questa parte di sé, per cui è questo stesso fatto che diviene salvifico. L’incontro
con sua vecchia tata ormai ottantenne, una commoventissima dichiarazione
d’amore accompagnata dalle lacrime non versate a suo tempo; rivedere il suo ex
ragazzo (col quale aveva vissuto, nel suo secondo periodo giapponese, descritto
in Ni d’Ève ni d’Adam, una esperienza
di tenerezza, amicizia, complicità, ma non di passione) dal quale era fuggita
per la “minaccia” di un possibile matrimonio e che le riconferma, senza più
colpe, la giustezza della sua scelta, sono tappe fondamentali per poter ormai
guardare a quel passato non più con una “nostalgia triste”, ma con natsukashii, «la nostalgia felice,
l’istante in cui il bel ricordo torna alla memoria e la riempie di dolcezza», una
nostalgia ormai conciliata, tanto da diventare il titolo stesso del libro.
A questo punto, visitata anche
Fukushima per immergersi nei luoghi dell’orrore dello tsunami, Amélie è
sufficientemente purificata per ottenere «una ricompensa inattesa, quella che
sperano i monaci zen: io sento il vuoto», un satori in miniatura il kensho,
in cui si è «col presente assoluto, l’estasi perpetua, la gioia esaustiva», che
le fa dire di essere sulla «soglia di qualcosa che sta per cominciare» e,
finalmente, «la tristezza, che si sarebbe dovuta abbattere su di me all’idea di
lasciare ancora una volta il Giappone, non arriva»: è una guarigione e una
redenzione, sottolineata dalla visione estatica dall’aereo, nel viaggio di
ritorno, dell’Everest, di fronte al quale si promette di non avere più né
dolore né malinconia, ma solo, al massimo, della "nostalgia felice".
Guarita dal Giappone e del Giappone,
l’Autrice coraggiosamente ci confida di sentirsi di fronte a un nuovo inizio,
con tutto quello che questo vissuto ha di più promettente. E anche Parigi in
cui torna («la città dove hai conquistato il diritto di abitare») è vista con
occhi nuovi e gioiosi («considero la mia felicità e mi rallegro delle cose
fantastiche che mi accadranno»). Ma presto il quotidiano trionfa
sull’entusiasmo, ricomincia il canto delle sirene (tornare tra le braccia della
tata Nishio-san, sentire il “ragazzo” Rinri...), le persone chiedono di
raccontare, ma non si può e tutto suona falso. Nell’ultima tornano due parole
che erano comparse nelle pagine precedenti: “indicibile” (come aveva detto l’ex
fidanzato) e “sconosciuto” (ciò che minacciava): «Urto contro il muro
dell’indicibile. Non so se bisogna grattarlo per ricavare qualche infimo frammento
o scavare una galleria. Alla fine, opto per questa soluzione. Poiché sono in
una impasse emozionale, decido di
partire. Questa volta la destinazione è sconosciuta». Viaggio metaforico o
letterale? Per noi un motivo in più per attendere le sue future produzioni,
l’anno prossimo o forse più in là, senza una data prestabilita...
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