Molti aspetti avvicinano due film nati lontani e con
motivazioni diverse, A Simple Life [Táo Jie, di Ann Hui, 2011] e Tutti i nostri desideri [Tous nos envies, di Philippe Lioret, 2011]:
incontri con la vecchiaia o la malattia, morte annunciata e poi giunta,
relazioni umane intense e trattenute.
A Simple Life nasce da una storia vera,
quella di un produttore cinematografico di Hong Kong che si prende carico
dell’anziana donna che per sessant’anni aveva servito varie generazioni della sua
famiglia. Ora tocca a lui, ultimo rimasto a Hong Kong, di occuparsi di lei,
quando sopraggiungono i danni della vecchiaia, accompagnandola fino alla morte.
Il produttore Roger, apparentemente freddo, svolge il suo compito con grande impegno
e dedizione nello spirito orientale dello scambio, della restituzione e del
pagamento di un debito contratto con chi, in altri momenti, ci ha aiutato e si
è preso cura di noi. Tutto è vissuto con semplicità (quella incarnata
nell’esistenza della vecchia domestica) e con misura (anche nella difficile
narrazione di infarti, ospizi, demenze senili).
In Tutti i nostri desideri c’è, invece, la
bella e giovane magistrato che scopre di avere un cancro proprio quando è
impegnata in una causa nella quale cerca di contrastare l’arroganza e le
soperchierie del mondo bancario verso i clienti più indifesi. Si rivolge per
aiuto a un collega più anziano che si dà carico della continuazione
appassionata del lavoro, e col quale nasce una solidarietà fatta non di sesso e
neppure delle memorie e dei sedimenti affettivi delle consumate amicizie, ma
dalla completa intesa su un progetto condiviso che nasce da un comune sentire.
Claire nasconde fino all’ultimo alla famiglia la sua malattia e sarà il collega
a saperlo per primo. La situazione drammatica non si fa mai melodrammatica, la
reticenza di Claire non viene dall’introversione orientale, ma semmai dal segreto
orgoglio di una esistenza ferita dalla condanna a lasciare anzitempo una vita
incompiuta .
In tutti e due i film non ci si occupa di quel che ci
aspetta “dopo”, ma di come impiegare il tempo che resta nella sofferta
riflessione sul presente e sui tentativi di completamento dell’opera: la
domestica farà in tempo a vedere l’ultimo rampollo della famiglia e a dare
qualche oggettino in regalo alla madre del bambino; la magistrato porta avanti
il suo compito fino all’estremo per poter cogliere il frutto del comune impegno,
cercando nel contempo di organizzare il futuro dei suoi bambini per quando non ci
sarà più.
Sentimenti asciutti, niente retorica dell’amore, comunicazione
delle coscienze, comportamenti misurati, niente accanimenti terapeutici, sguardi
benevolenti al futuro mondo senza di noi piuttosto che al destino dell’anima. «Non
c’è nessuna strada che porti alla montagna magica», dice una poesia recitata
(in A Simple Life): anzi,
aggiungiamo, non c’è nessuna montagna magica da raggiungere. Ci troviamo forse
di fronte a qualche segnale di un’etica del finito, all’inizio di un’era post-psicologica,
post-cristiana e post-tecnologica?
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