Il romanzo Quel che resta del giorno, racconta in forma di diario la storia di
un maggiordomo inglese, Mr Stevens, e del suo lavoro a Darlington Hall, prima al servizio di Lord
Darlington e poi dell’americano Mr
Farraday. Sul finire dell'estate del 1956, Mr Stevens sente il bisogno di una pausa e, su proposta del suo stesso
datore di lavoro, fa un breve viaggio nella campagna inglese, sperando di rivedere
Miss Kenton, molti anni prima governante a Darlington Hall, per esplorare la
sua disponibilità a tornare a lavorarvi.
L’ambiente inglese e la figura
di un impeccabile maggiordomo sono per Ishiguro Kazuo, autore giapponese
trapiantato in Gran Bretagna, il contesto e le metafore adatti per affrontare i
temi della dignità, della devozione, del sacrificio della propria vita privata al
fine di svolgere un compito “più importante”, tutti elementi fondamentali della
cultura giapponese, di cui l’A. sembra voler saggiare la possibile coerenza con
un ambiete extra-nipponico. Il maggiordomo Stevens nel suo breve viaggio-vacanza,
anche questo una metafora, si concede un tempo psicologico per ripensare alla
sua vita, alle rinunce, al significato di fedeltà e dedizione quando si
rivelino mal indirizzate.
Cosa rende “grande”un
maggiordomo? In che consiste la sua dignità? Questa domanda attraversa un po’
tutto il libro e le risposte che Mr Stevens si dà sono sostanzialmente due: la
prima fa coincidere la dignità con la capacità di non abbandonare mai il ruolo
professionale, non facendosi «sconvolgere da avvenimenti esterni, per quanto sorprendenti,
allarmanti o irritanti questi possano essere», non lasciando mai emergere la
dimensione privata e portando su di sé la «professionalità allo stesso modo in
cui un vero gentiluomo porta l’abito che indossa: e cioè senza consentire a dei
mascalzoni o alle circostanze di strapparglielo di dosso davanti agli occhi di
tutti; sarà egli stesso ad abbandonarlo quando stabilirà di farlo e soltanto
allora, cosa che invariabilmente accadrà quando egli sarà rigorosamente solo»
(p. 54). Per questo, in un’altra pagina, egli dirà, senza che l’interlocutore
possa effettivamente comprenderlo, «ho il sospetto che sostanzialmente consista
nel non togliersi i panni di dosso in pubblico». Egli prende anche in esame i criteri adottati dalla Hayes
Society (che «si vantava di accogliere tra i suoi membri maggiordomi che
fossero “solo di primissimo rango”») per ammettere professionisti che mostrassero
«quella dignità all’altezza della posizione che si occupa», e qui apprendiamo
che un prerequisito fondamentale era che «l’aspirante fosse aggregato ad una
famiglia illustre”». Per Mr Stevens e alcuni suoi colleghi (di una «generazione
dotata di molto maggiore idealismo» delle precedenti) il riferimento era «lo status
morale di coloro presso i quali prestavano la loro opera» (p. 138) e non la collocazione
nella scala sociale di quella famiglia. Di conseguenza, il prestigio
professionale doveva poggiare sul valore morale del padrone e questo poteva giustificare
la totale delega su modi e mezzi attraverso i quali questo svolgeva la sua
opera al servizio dell’umanità. Così ciascuno di quei grandi ma umili
maggiordomi, col proprio servizio, dice Mr Stevens, «nutriva il desiderio di
offrire il suo piccolo contributo alla creazione di un mondo migliore e si
rendeva conto che […] il mezzo più sicuro per fare una cosa del genere era
quello di entrare al servizio dei grandi personaggi del nostro tempo, alle cui
mani era stata affidata la civiltà» (p. 140 s). Qui vediamo messo in luce il
fondamento del sistema imperiale e sociale giapponese, in cui ciascuno dà il
contributo che gli è proprio e questo acquista significato nella misura in cui
partecipa alla realizzazione di un progetto, affidata a chi è al vertice della
piramide sociale.
Ma
negli incontri con “gente comune” che Mr Stevens fa nel corso del viaggio (un
gruppo di abitanti di un villaggio in cui il maggiordomo è costretto a sostare),
vediamo affiorare una seconda, diversa risposta in cui mi sembra di scorgere il
tentativo di esprimersi di una nuova mentalità giapponese che si interroga su
quel sistema, ne scorge i limiti e vorrebbe, pur senza distruggerlo, modificarlo.
Nelle conversazioni si affacciano nuovi argomenti, si prospetta una nuova
definizione di dignità valida per tutti (essere liberi di esprimere la propria
opinione e di eleggere dei rappresentanti), si presentano nuovi criteri di partecipazione
alla grande società e sono messi in discussione modalità e limiti della delega,
dato che spesso i grandi progetti si rivelano disatrosi (esperienza giapponese
della seconda guerra mondiale!). Sembrerebbe giusto, ma la democrazia non può
ignorare che la “gente comune” non ha idee chiare e competenze sufficienti per
affrontare i problemi della nazione e quindi deve delegare a chi ha maggiori capacità
la responsabilità delle scelte. Il libro lascia aperti gli interrogativi e, pur
nella consapevolezza degli errori commessi da Lord Darlington a causa delle sue
simpatie verso i nazisti negli anni Trenta, Mr Stevens rimane convinto che
quegli errori siano stati compiuti nella più grande buonafede e nella limpida convinzione
di stare operando, in quel momento e in quel modo, per il bene comune. Se si
assume un atteggiamento critico e scontento «nei confronti di un padrone»,
riflette Mr Stevens, non è «letteralmente possibile […] al tempo stesso fornire
un buon servizio», per cui la morale che ne segue è che quando si ripone la
propria fiducia in qualcuno che riteniamo «nobile e degno di ammirazione», e ci
si consacra al suo servizio, il criterio non sarà rappresentato da bontà e
successo dei progetti, ma dal fatto di aver agito ritenendo di operare sempre
per il meglio. Così stando le cose, il criterio diviene il leader stesso (in
Giappone era l’Imperatore) e agli altri resta la soddisfazione di offrire il proprio
contributo a qualcosa di grande. È l’etica della completa dedizione, il codice
morale del bushido (la via del
guerriero), di cui si tenta una riattualizzazione. «Se alcuni di noi sono
pronti a sacrificare molto, nella propria vita, al fine di perseguire tali
aspirazioni, ciò sicuramente rappresenta in sé, quali che siano i risultati che
ne derivano, motivo di orgoglio e di felicità» (p. 293). Il libro non offre
soluzioni, né è certo “obbligato” a farlo!, ma non prende in considerazione il fatto
che le democrazie occidentali avevano individuato una risposta al conflitto tra
democrazia diretta e assolutismo (che possono rivelarsi entrambi rovinosi), una
soluzione “mediana”, contando su partiti politici capaci di svolgere la funzione
di “intellettuale collettivo”: il “popolo” esprime dei bisogni, manifesta degli
interessi, esercita il controllo delle élite,
ma — sulla base di un rapporto di fiducia che non deve essere tradito — deve lasciare
a chi ha le giuste competenze il compito della mediazione e la scelta dei mezzi
più adeguati per affrontare i problemi di una nazione o addirittura dell’intera
umanità. Oggi la crisi della rappresentanza ha drammaticamente riaperto tutti
problemi della direzione politica, in un vuoto che favorisce, da un lato,
corruzione, dilettantismi, caccia al potere e ai privilegi, e, dall’altro, le
espressioni del più individualistico e localistico populismo, per cui le
domande del libro (scritto circa 25 anni fa!) sono tornate brucianti per noi
che stiamo vivendo l’erosione generale di valori e norme, e la difficile
individuazione di leadership credibili verso le quali orientare quei bisogni di
autolimitazione, dedizione, obbedienza che — come aveva ben visto Fromm — fanno
parte dei bisogni autenticamente umani. In una democrazia contraffatta anche l’etica
del bushido risulta quindi compromessa e impraticabile: se l’obbedienza
irragionevole non è più una virtù potendosi tramutare in complicità, la
cosiddetta democrazia diretta si rivela attrettanto irragionevole, caricando l’individuo
della responsabilità di tutte le scelte, anche di quelle in cui sa di non avere
le giuste competenze per decidere.
Nel
libro, infine, viene toccato un altro tema, connesso al primo, ma anche più
generale, quello del bilancio di vita che, dolorosamente, nell’età avanzata può
portare a domandarsi: «Era questa la mia vita?», per magari concludere, con Miss
Kenton, «“Che terribile errore è stata la mia vita”. E allora si è indotti a
pensare ad una vita diversa, una vita migliore
che si sarebbe potuto avere» (p. 286). Rinunce, sacrifici, illusioni: quanti “errori”!
In sede di bilancio ci si accorge che forse nessuna vita si è vissuta come si
desiderava vivere. Ma l’orologio non si può portare indietro, gli “errori” non
si possono più “correggere” e forse va spezzata la catena (illusoria) che lega
libertà, responsabilità e colpa. E cosa va considerato “errore”? L’A. fa dire, a
uno sconosciuto che Mr Stevens incontra dopo aver lasciato la sua vecchia
collega di lavoro, che «la sera è la parte più bella della giornata. Hai
concluso una giornata di lavoro e adesso puoi sederti ed essere felice». Così, pur
«accorgendosi che le nostre vite non sono state proprio quello che avremmo
desiderato» (p. 292), si può cercare di trarre il meglio da quel che rimane da
vivere. Ma, probabilmente, tutto questo non basta, perché si continuerà con
altri “errori”, delusioni, inganni e autoinganni, cosa che mi fa tornare alla
mente un pensiero di R. Badinter (docente, avvocato, saggista), che esprimeva
la tenera “speranza” che, quando la sua anima fosse giunta alle porte del
Paradiso per
incontrare il Signore del mondo, questo gli potesse dire: «Hai fatto quel che
potevi: entra!». Quell’incontro probabilmente non lo avremo mai e allora sta a
noi costruire, qui, con quelle che chiamiamo “le nostre forze”, un equilibrio
accettabile tra disimpegno assolutorio («è andata com’è andata, ma non è dipeso
da me») e mortificazione colpevolizzante («è tutta colpa mia»): ancora un invito
alla difficile pratica della Via di mezzo?
Nel 1993 il regista James Ivory ha realizzato una trasposizione cinematografica
di Quel che resta del giorno non meno
pregevole del romanzo, con le eccellenti interpretazioni di Anthony Hopkins ed
Emma Thompson. Vorrei ricordare anche che, sul tema del bushido oggi in
Occidente, nel 1999 uscì un altro notevole e drammatico film: Gost Dog-Il codice del samurai, di Jim
Jarmusch.
Nessun commento:
Posta un commento