L’insegnamento fondamentale e peculiare che il buddhismo ci ha dato è
quello relativo alla consapevolezza dell’impermanenza di tutti i fenomeni («tutto ciò che è determinato ed escogitato è
impermanente e destinato a finire», Culasuññatasutta [Piccolo
discorso sulla vacuità], M.N., n° 121), per cui «proprio come i vasi di coccio fabbricati dal vasaio
finiscono sempre per rompersi, così avviene con le vite dei mortali» (Suttanipata, 8, 3-4). Questa legge è
ineluttabile e, afferma il Buddha, «Vi sono cinque cose che nessun
asceta, nessun bramano e neppure un dio né Mara né Brahma né alcun altro al
mondo è in grado di fare. Quali sono queste cinque cose? Ottenere che quanto è
soggetto a invecchiare non invecchi, che quanto è soggetto a malattia non si
ammali, che quanto è deperibile non sia distrutto, che quanto è soggetto a
finire non finisca; ecco quanto nessun asceta, nessun bramano e neppure un dio
né Mara né Brahma né alcun altro al mondo è in grado di fare» (Anguttara Nikaya, III, 58). Vano,
quindi, sperare di sottrarsi alla morte: «Non in cielo né nelle profondità
dell’oceano né all’interno dei crepacci nelle montagne: non v’è luogo al mondo
nel quale la morte non vinca il mortale» (Dhp.,
128).
Questo insegnamento è stato
elaborato in vari modi dalle differenti scuole buddhiste sviluppatesi nel corso
dei secoli, dando luogo a pratiche e atteggiamenti diversi. Per limitarci alla
Scuola Tiantai/Tendai, vediamo come Nichiren, che in quella scuola si era
formato, ne parli nel suo scritto L’eredità
della Legge fondamentale della vita (in Gli
scritti di Nichiren Daishon, tr. it., vol. 4, Firenze, Ass. it. Nichiren
Shoshu, 1991, p. 221 s.). Citando Saicho [Dengyo Daishi], fondatore del Tendai
giapponese, egli scrive: «Il Gran Maestro Dengyo disse: “Nascita e morte sono
le funzioni misteriose dell’essenza della vita. La realtà fondamentale della
vita sta nell’esistenza e nella non-esistenza”. Nessun fenomeno — cielo o
terra, yin o yang, il sole o la luna, i cinque pianeti o qualsiasi condizione
vitale da Inferno a Buddità — è libero dalla nascita e dalla morte. […] Nel Maka shikan, T’ien-t’ai [Chih-i] dice:
“L’apparizione di tutte le cose è la manifestazione della loro natura intrinseca
e la loro estinzione è il ritiro di tale natura nello stato di latenza”».
Il
concetto di latenza può risultare molto utile per interpretare in modo corretto
quanto viene detto dei fenomeni, i quali, non essendo dotati di esistenza
inerente, propriamente “non nascono e non muoiono”, ma sono trasformazioni di
una più profonda, noumenica realtà (quella qui denominata “essenza” o “natura
intrinseca”). Tuttavia, essi sono “convenzionamente” esistenti per una mente come
quella umana, anch’essa “convenzionalmente” esitente. Se poi consideriamo la
catena di causa-effetto, il fenomeno “nascendo” esce dallo stato latente in cui
si trovava ed entra in una serie di relazioni e di esperienze. Il fenomeno si
manifesta perché tutto era pronto perché esso potesse apparire: privo di esistenza
inerente, senza quelle pre-condizioni e condizioni come potrebbe, infatti,
venire a essere? La latenza pre-nascita possiamo considerarla non diversa da
quella in cui il fenomeno entra quando cessa di avere una esistenza individuale
e diciamo che scompare, “muore”, tornando a immergersi nella sconfinata realtà universale.
In questa nuova latenza non potrà più avere relazioni ed esperienze come quando
era “in vita”, ma la totalità del mondo, tuttavia, dovrà “registrare” quella avvenuta
presenza, risultandone inevitabilmente “cambiata”. Due latenze, dunque, fra le
quali si colloca l’“assurdo” dell’esistenza, nella quale si entra e dalla quale
si esce senza poter dare risposta né al perché della chiamata né a quella del
licenziamento.
Facendo un salto di secoli, ritengo particolarmente suggestivo
arricchire la nostra comprensione con pensieri ed espressioni di pensatori del
nostro tempo, come ad es. lo storico e fenomenologo delle religioni Mircea
Eliade o il filosofo Vladimir Jankélévitch che, pur collocati in contesti e
tempi tanto differenti, sembrano muoversi nella stessa direzione degli antichi
insegnamenti Tiantai.
Eliade, osservando come noi siamo «inseriti nella realtà del
cosmo, anche se condizionati da linguaggio, società, interessi», ritiene necessario
assumere «la condizione umana a partire da questa condizione fondamentale in cui
i ritmi e i cicli sono dati» (La prova
del labirinto, tr. it., Milano, Jaca Book, 1979, p. 108) e considerare particolarmente
quel circuito eterno della vegetazione e della vita, in cui si mostra l’unità di
vita e morte (p. 123). Per questo, egli osserva, «in tutte le società
tradizionali la morte non era considerata come la fine assoluta, ma solo come
un rito di passaggio a un nuovo modo
d’essere; si potrebbe dire che la morte costituiva l’ultima esperienza iniziatica, grazie alla quale
l’uomo acquisiva una nuova esistenza, puramente
spirituale» (Le messi del solstizio, tr.
it., Milano, Jaca Book, 1995, p. 140), una esistenza dematerializzata, priva cioè
della sua evidenza corporea e, dunque, da questo punto di vista, “latente”.
Jankélévitch
(1903-85), interessante figura di filosofo, titolare della cattedra di
filosofia morale alla Sorbonne, ma per nulla “accademico” e sempre attento ai
problemi dell’esistenza (su di lui tornerò), nella sua analisi
dell’irreversibile (quel che impedisce di ritornare sui propri passi o rivivere
nella sua forma primitiva un’antica esperienza) e dell’irrevocabile (ciò che
impedisce che il passato sia annullato), sottolinea come il fatto d’aver fatto,
il fatto che si è fatto, il fatto d’esser stato segna per sempre con la sua impronta
la totalità di una vita e della vita. «Qualunque cosa succeda, nulla sarà più
come prima… La storia del mondo è segnata per sempre da ciò che è avvenuto. Ciò
che è avvenuto non può, non può più non essere avvenuto; quel che ha avuto
luogo non può, non può più non aver avuto luogo». Di fronte a questo supermiracolo,
lo stesso «miracolo della resurrezione sarebbe il più banale dei fatti di
cronaca» (L’irréversible et la nostalgie,
Paris, Flammarion, 1974, p. 336). Pertanto, egli conclude, «quando la morte, consacrando
il fatto compiuto dell’aver-vissuto, ha messo il sigillo finale
all’irreversibile-irrevocabile della nostra vita è, con l’impossibilità di
rivivere, il mistero indistruttibile dell’esistenza che ha avuto il suo corso
che è affermato per sempre. Ci si chiede: perché questa assurda successione di
avvenimenti senza una finalità trascendente che viene chiamata la vita umana e
il cui unico fine sembra essere il nulla? Paradossalmente è la morte stessa,
decidendo per l’eternità, che ci salva dall’inesistenza. Tra il non-essere e il non essere più c’è tutta la distanza infinita dell’esser-stato; e nulla al mondo può ormai
annullare una tale distanza. Colui che è stato non può più ormai non essere
stato: ormai questo fatto misterioso e profondamente oscuro d’essere vissuto è
il suo viatico per l’eternità» (ivi,
p. 338 s.).
Ogni fenomeno che è esistito, che
è stato chiamato dalle forze oscure della Vita a emergere dalla latenza, quando
scompare, per l’azione di quelle stesse forze, lascia un segno, una traccia,
un’increspatura pur minima sulla superficie del mondo… Ma questo ritengo debba valere
solo come risposta al ricorrente quesito su cosa ci sia dopo la morte, non per
costruire un’altra ontologia ansiolitica, una forma di “consolazione” di fronte
alla tragicità della fine della capacità di sentire, di desiderare, di patire. Diceva
Pavel Aleksandrovič
Florenskij (Non dimenticatemi, 12
aprile 1935): «Niente
si perde completamente, niente svanisce, ma si conserva in qualche modo e da
qualche parte. Ciò che ha valore rimane, anche se noi cessiamo di percepirlo». Perché
qui è il punto: l’uomo, quando ha pensato a una vita eterna per sé, ha
desiderato la possibilità di conservare il suo mondo esperienziale, la sua
capacità di sentire, la sua memoria, la sua identità. Questa traccia, memoriale senza memoria, in che
modo si conserverà, lui spento, se non sarà più ricordata, scomparse anche la coscienza
collettiva e la storia umana? Siamo ancora una volta di fronte a quel rapporto ultimo,
misterioso e inafferrabile tra realtà e coscienza, tra essere ed essere conosciuto, tra priorità dell’Anima mundi o priorità del “corpo” del
mondo; e ancora, si tratta di una dualità o di una inestricabile, inseparabile,
coeva ed eterna unità? Dalla natura di quel rapporto tutto dipende, compresa
quindi la possibilità o l’impossibilità di dare qualche risposta alla domanda
fondamentale sulla nostra esistenza…
4 commenti:
Il suo post mi offre una bellissima complessità di riflessioni, di emozioni, di considerazioni.
Ieri, il 2 settembre sono passati 12 anni dalla morte di mio padre - evento che ancora oggi mi trovo ad elaborare attraverso continue riconsiderazioni, attribuzioni di significato, di senso, emozioni profonde, una ricerca che mi riporta a me stesso.
Come una volta lei ci fece meditare sul respiro, cogliendo nelle varie parti di cui è composto una nascita inspiratoria - una latenza "esistente" - una morte espiratoria - una latenza "morente" (con delle reinterpretazioni mie), oggi mi chiedo se non sia possibile cogliere questo respiro nei suoi molteplici livelli dal microcosmo dei corpuscoli sub-atomici, al macrocosmo delle galassie. Mi chiedo anche quanto questo mio pensiero voglia essere "consolatorio" o speranzoso, nel distogliere il pensiero dalla tragicità del non essere più. Grazie,
un abbraccio e a presto
In Coscienza e cambiamento, osservavo che la pratica del “tetralemma” o “inferenza in quattro proposizioni” o del “seguire il proprio pensiero (in quattro fasi)” (giapp.: shiku suiken) ci consente di cogliere la latenza nella concretezza del fenomeno osservato (pensiero, respiro o altro). Chih-i giustifica la scelta di tale tecnica di osservazione, in primo luogo, perché data la peculiare natura della mente, essa ci offre qualcosa di concretamente e immediatamente osservabile; in secondo luogo, perché le quattro fasi, a differenza di ogni altro possibile riferimento, sono universalmente applicabili (tutto essendo collocato nel tempo), si possono reperire in ogni momento del pensiero, durante ogni attività e sotto ogni circostanza: dunque perché no alle realtà subatomiche o alle galassie? E potremmo ricordare il “già e non ancora” della teologia cristiana, secondo la quale la salvezza è già avvenuta, ma non è ancora completa, perché Cristo si è già rivelato, ma una seconda venuta è attesa.
Dicendoci qualcosa del nostro modo di essere qui ora (tra le due latenze!) queste consapevolezze possono anche consolarci (come fa ogni vera conoscenza), ma senza ingannarci (come fanno, invece, le consolazioni manipolatrici) e senza nascondere i lati più drammatici dell’esistenza. Chih-i proponeva, infatti, questa meditazione come vera meditazione mahayana, il cui fine è nel ritorno dell’illuminato al mondo dei fenomeni, all’assoluta assolutezza dell’Uno che si fa concreto nei molti. Nichiren, che si era formato agli insegnamenti della scuola Tendai, ha l’indubbia capacità di mostrarci la traduzione nella diretta esperienza del devoto anche dei più ardui concetti di questa Scuola, per cui può essere utile leggere quanto egli scriveva in proposito: «Se guardi nella tua mente in qualsiasi istante, non puoi percepire né un colore né una forma per verificarne l’esistenza. Tuttavia non puoi neanche dire che non esista, poiché pensieri differenti l’attraversano di continuo. La vita è veramente una realtà inafferrabile che trascende sia le parole che i concetti dell’esistenza e della non-esistenza. Non è né esistenza né non esistenza, e comunque ha le caratteristiche di ambedue. È la mistica entità della Via di Mezzo che è la realtà di tutte le cose» (Gli scritti di Nichiren Daishonin, cit., IV, p. 5 s.).
"Se tutto e' vuoto dove si posa la polvere?".....(Hui Neng).
anche la polvere è vuota
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