domenica 25 aprile 2010

Conclusione del gioco ermeneutico#3

Gli interessati potranno trovare le considerazioni conclusive del Gioco ermeneutico#3 nei commenti del “post” (in data 02 03 10).

Cariatidi e dintorni#21/Roma, piazza della Repubblica


palazzi dell’Esedra (1896-1902, Gaetano Koch), piazza della Repubblica

(foto RV)



giovedì 22 aprile 2010

Modi di dire#4/Per un punto Martin perse la cappa

“Per un punto Martin perse la cappa”. Di quale Martino si tratta? E di che cappa si parla? L’espressione allude a Martino abate del monastero di Asello (XVI sec.) che, nel rinnovare l’edificio dell’abbazia, avrebbe fatto apporre l’iscrizione Ianua patens esto. Nulli claudaris honesto ossia La porta sia aperta. Non sia chiusa a nessuna persona onesta. Ma, per distrazione, stanchezza o ignoranza, risultò la scritta Ianua patens esto nulli. Claudaris honesto ovvero La porta non sia aperta a nessuno. Sia chiusa all’onesto. L’errore non fu perdonato all’abate, il quale per questo perse la cappa ossia (sineddoche!) la sua carica. La morale è che i segni di interpunzione sono importanti e, più in generale, che bisogna riflettere su Il potere terribile di una piccola colpa, come s’intitola un libro di Abraham Yehoshua.

sabato 17 aprile 2010

Vita aperta#2

«L’uomo delle società in cui il mito è cosa vivente», osserva ancora Eliade, «vive in un mondo “aperto”, anche se “cifrato” e misterioso. Il Mondo “parla” all’uomo e, per comprendere questo linguaggio, basta conoscere i miti e dicifrare i simboli. […] In ultima analisi, il Mondo si rivela come linguaggio. Parla all’uomo con il proprio modo d’essere, con le sue strutture e i suoi ritmi». Aprire l’esistenza è, dunque, decifrare simboli, trovare esempi, sentire l’appartenenza al Cosmo. «In un mondo simile, l’uomo non si sente rinchiuso nel suo modo d’esistenza; anch’egli è aperto, comunica con il Mondo, perché utilizza lo stesso linguaggio: il simbolo. […] Se il Mondo è trasparente per l’uomo arcaico, anche questo si sente “guardato” e compreso dal Mondo. La selvaggina lo guarda e lo comprende (spesso l’animale si lascia catturare perché sa che l’uomo ha fame), come pure la roccia o l’albero o il giume. Ciascuno ha la sua storia da raccontargli, un consiglio da dargli» (Mito e realtà, tr. it., Roma, Borla, 1993, p. 175-77). I simboli aprono il Mondo e aiutano ad accedere all’universale: «L’uomo, in virtù dei simboli, esce dalla sua situazione particolare per “aprirsi” verso il generale e l’universale. I simboli risvegliano l’esperienza individuale e la tramutano in atto spirituale, in una presa metafisica del Mondo […]: comprendendo il simbolo è in grado di vivere l’universale» (S&P, p. 166); e il simbolo consente di «far fruttare questa esperienza individuale, “aprirla” verso l’universale» per cui avrà «adempiuto completamente alla sua funzione [se] avrà risvegliato la coscienza “totale” dell’uomo, rendendola “aperta” all’universo» (ibidem).

Cheng (scrittore, membro dell’Académie française) riprende l’espressione nelle sue Cinq méditations sur la beauté (Paris, Albin Michel, 2006) in un contesto diverso: riferendosi all’arte, dice innanzitutto che essa, «attraverso le sue forme sempre rinnovate, tende verso la vita aperta abattendo le chiusure dell’abitudine e provocando una maniera nuova di percepire e di vivere» (p. 122). La vera bellezza, l’autentica, «è quella che va nel senso della Via, stabilito che la Via non è altro che l’irresistibile marcia verso la vita aperta, un principio di vita che mantiene aperte tutte le sue promesse» (p. 36). Quando siamo di fronte a una cosa bella, «miracolosa entità di armonia, coerenza e risoluzione», sentiamo che «la bellezza è qualcosa di virtualmente là, da sempre là, un desiderio che sorge dall’interno degli esseri o dell’Essere, come una fonte inesauribile», desiderio di compiutezza. Una rosa, ad es., «si manifesta in tutto lo splendore della sua presenza, propagando delle onde ritmiche verso ciò a cui ella aspira, il puro spazio senza limiti. Quest’irrefrenabile apertura nello spazio è a immagine di una fonte che senza posa zampilla dal suo fondo» (p. 39). L’arte, dunque, come via e slancio verso una vita aperta, vita aperta alla pienezza di sé che coincide con la pienezza stessa dell’Essere, un Essere dinamico e vivo che senza fine si apre e sprigiona vita.

Quel che abbiamo visto per la religione e per l’arte si estende a tutta la vita spirituale. Cogliere il simbolico e l’univerale significa uscire dal contingente, cioè dal tempo e, quindi, dall’angoscia del parziale, del conflitto, della rovina: nell’universale c’è, infatti, un elemento di perfezione e di eternità. Tale compimento è, tuttavia, da intendere come un compimento dinamico, perché qualunque tipo di esperienza è soggetta alla legge dell’impermanenza.

Se, negli orientamenti dualistici, l’immagine dell’apertura sta a significare la rottura di livello che porta alla trascendenza del “totalmente altro”, diverso dal mondo delle differenziazioni fenomeniche, come può questa esigenza essere raccolta in un orientamento che non propone una rottura ontologica, ma un cambiamento di stato di coscienza?

La tradizione mahayana ha parlato di dieci mondi, che descrivono le esperienze, dalle più miserevoli (inferno) alle più beatifiche (mondo dei Buddha). L’apertura, in questo contesto, sarà non rimanere chiusi in uno dei mondi-livelli inferiori, ma sollevarsi a quello dei bodhisattva e, infine, a quello della contemplazione buddhica. Ciò non significa che l’esperienza dell’uomo (di questa sola possiamo parlare) possa essere trascesa in una vita di totale e permanente pienezza (di amore, bellezza e verità): la “maledizione” della discontinuità, di cui parlava Eliade, legata alle esperienze del sacro o, in genere, di totalità, “consente” che esse siano vissute solo per un tempo limitato poiché ogni esperienza vive nel tempo e non può sottrarsi all’impero dell’impermanenza: in altre parole, ci è concessa l’apertura verso l’infinito, ma solo nell’“intermittenza del cuore”... Ma questa intermittenza non ha, comunque, il potere di oscurare il miracolo della coscienza, la struttura alla quale più che a ogni altra si addice l’attributo di “aperta”: aperta alla Realtà, che la Realtà afferma e che della Realtà costituisce il senso. La Vita, come realtà “aperta”, rimane in attesa dell’azione creativa umana, prosecuzione della creatività e dell’espansione del Dharma eterno.

domenica 11 aprile 2010

Vita aperta#1

Come dobbiamo intendere l’espressione “vita aperta”, espressione che troviamo presente nel linguaggio quotidiano e in più di un autore? Aperto è evidentemente contrapposto a chiuso; dunque, una esistenza che non si voglia chiusa a cosa sarà aperta? Intanto alla vita stessa, alla sua ricchezza, profondità e imprevedibilità, perché un’esistenza, che voglia raggiungere o approssimarsi alla propria autorealizzazione, non può rimanere chiusa all’esperienza. Così, dall’“aprire il cuore” (sineddoche per vita) al dolore, al domani, alla fede derivano anche l’essere aperti all’incontro, al dialogo, all’amore. Ma c’è un’altra apertura, che fa riferimento alla vita spirituale, forse più difficile da determinare e capire. Ci viene in aiuto Eliade, che usa questa espressione nella sua fenomenologia della vita religiosa. Nell’homo religiosus «la vita è vissuta su due piani: si sviluppa in quanto esistenza umana e, contemporaneamente, fa parte di una vita transumana, quella del Cosmo o degli dèi» (S&P, p. 132); «si potrebbe, pertanto, chiamarla un’“esistenza aperta”, non essendo particolarmente limitata al modo d’essere dell’uomo […]. L’esistenza dell’homo religiosus, soprattutto del primitivo, è “aperta” al Mondo; l’uomo religioso, vivendo, non è mai solo poiché una parte del Mondo vive in lui. […] In altre parole, il simbolismo cosmco aggiunge un nuovo significato a un oggetto o ad un’azione senza per questo attentare ai loro valori specifici immediati. Un’esistenza “aperta” al Mondo non è un’esistenza inconscia, sepolta nella Natura. L’“apertura” verso il Mondo mette in grado l’uomo religioso di conoscersi conoscendo il Mondo, conoscenza preziosa in quanto “religiosa”, in quanto riferita all’Essere» (ivi, p.131).

Per essere in comunicazione con gli dèi e partecipare alla santità del Mondo egli «aspira a collocarsi in un “Centro”, laddove esiste la possibilità di comunicare con gli dèi» (p. 136). Attraverso varie identificazioni antropocosmiche, Cosmo, casa, corpo umano acquistano la possibilità di ricevere una maggiore “apertura” che rende possibile il passaggio a un altro mondo: apertura superiore di una torre, apertura del tetto, apertura in cima al cranio (e usanza di spezzare il cranio per facilitare la dipartita dell’anima, che esce dal camino o dal tetto, nel quale si possono togliere o spezzare tegole, p. 137), tutte aperture superiori che agevolano i passaggi. «Un territorio abitato, un Tempio, una casa, un corpo, sono, come s’è visto dei cosmi. Ma tutti questi Cosmi, ciascuno secondo il proprio modo d’essere, conservano un’“apertura”, qualunque sia l’espressione scelta dalle diverse culture […]. In un modo o nell’altro, il Cosmo abitato — corpo, casa, territorio tribale, tutto questo mondo nella sua totalità — comunica dall’alto con un altro livello che lo trascende» (p. 139). La filosofia e la mistica fra «tutti i simboli che potevano significare la rottura ontologica e la trascendenza, hanno preferito scegliere questa imagine primordiale dello spezzamento del tetto. Il superamento della condizione umana si traduce, in senso figurato, nell’annientamento della “casa”, cioè del Cosmo personale scelto come dimora» (p. 139 s.). Ricordiamo che anche il Buddha adoperò la stessa metafora della casa e del tetto spezzato: «Lungo innumerevoli esistenze son corso invano, cercando il costruttore della casa. Doloroso è tornare a nascere di volta in volta. Costruttore della casa, sei stato riconosciuto! Non erigerai più la casa! Tutte le travi sono state difatte, la traversa del tetto è stata distrutta. La mente si è liberata dai coefficienti, è giunta al termine di ogni sete» (Dhp., 153-54).

sabato 10 aprile 2010

Cariatidi e dintorni#20




Mobile credenza di artigianato siciliano degli anni Quaranta del sec. scorso
(foto Vito Ferri)

sabato 3 aprile 2010

Una tazza di tè

(foto RV, Parigi, pasticceria Minamoto)

"Fuori il mondo ruggisce o si addormenta, scoppiano le guerre, gli uomini vivono e muoiono, alcune nazioni periscono, altre, che verranno presto inghiottite, sorgono, e in tutto questo rumore e questo furore, in queste esplosioni e risacche, mentre il mondo avanza, si infiamma, si strazia e rinasce, si agita la vita umana.
Allora beviamo una tazza di tè" (Mauriel Barbery)

venerdì 2 aprile 2010

L'uomo totale o completo#3

Per Eliade, homo religiosus e “uomo totale” sono sinonimi («l’homo religiosus rappresenta l’uomo totale», Nostalgia, p. 20), perché l’uomo nella totalità delle sue dimensioni, insieme storico e transtorico, è proprio l’homo religiosus. Eliade «non circoscrive il suo studio all’esperienza religiosa, ma cerca di concepire e di comprendere quest’uomo nella totalità della condizione umana [e] nei suoi sforzi intesi a trascendere la propria condizione e a prendere contatto con la Realtà ultima […] per situarsi in mondo che abbia un significato» (J. Ries, Opere, III, p. 14 ss.). È, pertanto, alla scienza delle religioni, disciplina totale, che Eliade assegna il compito di studiare l’uomo nella sua totalità: «Riteniamo utile ripetere che l’homo religiosus rappresenta l’“uomo totale” e quindi la scienza delle religioni deve divenire una disciplina totale nel senso che deve usare, integrare e articolare i risultati ottenuti attraverso i vari metodi di avvicinamento ad un fenomeno religioso. Non è sufficiente afferrare il significato di un fenomeno religioso di una certa cultura e di conseguerna decifrarne il “messaggio” (poiché ogni fenomeno religioso costituisce una “cifra”); è necessario anche studiarne e comprenderne la “storia”, cioè dipanare la serie dei suoi mutamenti e delle sue modifiche e, infine, spiegare il suo contributo all’intera cultura» (Nostalgia delle origini, p. 20). «La storia delle religioni non è unicamente una disciplina storica, come per esempio l’archeologia o la numismatica. È anche un’ermeneutica totale, perché chiamata a decifrare e spiegare ogni tipo di incontro dell’uomo con il sacro, dalla preistoria ai nostri giorni» (ivi, p. 73). Anche se ci troviamo di fronte al fenomeno della moderna desacralizzazione, per Eliade «l’“uomo totale” non è mai del tutto desacralizzato e addirittura è dubbio che ciò sia mai possibile. A livello della vita cosciente, la secolarizzazione ha molto successo […], ma nessun uomo normale e dotato di vitalità può essere ridotto alla propria attività conscia e razionale, dato che l’uomo moderno sogna ancora, s’innamora ancora, ascolta la musica, va a teatro, guarda film, legge libri,vive insomma in un mondo storico e naturale ma anche in un mondo privato, esistenziale, e in un universo immaginario. È anzitutto lo storico e studioso di fenomeni religiosi che può riconoscere e decifrare le “strutture” religiose e i significati di questi mondi privati e universi immaginari» (ivi, p. 10).

Per l’uomo religioso delle società arcaiche «si constata che il Mondo esiste perché è stato creato dagli dèi, e che l’esistenza stessa del Mondo “ha” un significato, che il Mondo non è muto né opaco, non è una cosa inerte, senza scopo e senza senso. Per l’uomo religioso il Cosmo vive e parla. La vita stessa del Cosmo è una prova della sua santità, poiché è stato creato dagli dèi i quali si rivelano agli uomini attraverso la vita cosmica. Per questo motivo, da un determinato grado della cultura in avanti, l’uomo si considera un microcosmo. Fa parte della Creazione degli dèi; in altre parole ritrova in sé stesso la “santità” che trova nel Cosmo. Ne consegue che la sua vita è identificata alla vita cosmica: mentre questa in quanto opera divina, diventa l’imagine esemplare dell’esistenza umana». C’è una sacralità che possono assumere tutte le sue funzioni vitali, una funzione biologica, un comportamento non è mai un atto soltanto fisiologico o un modo di fare, un’abitudine, ma diventa «un sacramento, una comunicazione con il sacro», perché «l’esistenza dell’homo religiosus è “aperta” al Mondo; l’uomo religioso, vivendo, non è mai solo, perché una parte del Mondo vive in lui». Mentre «il Cosmo, per gli uomini moderni privi di religiosità, è divenuto opaco, inerte, muto: non trasmette alcun messaggio, non è portatore di alcun mistero» (140), e «tutte le esperienze vitali, dalla sessualità all’alimentazione, dal lavoro al gioco, sono state desacralizzate [e] ognuno di questi atti atti fisiologici è stato spogliato di qualsiasi significato spirituale e quindi della dimensione veramente umana» (132), per l’uomo religioso, attraverso una serie di identificazioni antropocosmiche, che identificano l’uomo e l’Universo, si può realizzare, invece, una sacramentalizzazione della vita corporea, per cui le principali funzioni fisiologiche sono suscettibili di diventare dei sacramenti e ogni esperienza è trasfigurata e vissuta su un piano transumano (cfr. S&P, pp. 21 e 130 s.).

Un passo ulteriore, in questo processo di corrispondenze micro-macrocosmiche, le identificazioni antropo-cosmiche permettono un rapporto-con o la realizzazione-della Totalità nel superamento degli attributi, che caratterizzano il mondo finito, attraverso la loro “totalizzazione”: ogni separazione dicotomica porta in sé la possibilità di integrazione e mette a disposizione strumenti per una possibile integrazione. «La coincidentia oppositorum o la trascendenza di tutti gli attributi, sono realizzabili per l’uomo in ogni sorta di modi. Così l’“orgia” la presenta al livello più elementare della vita religiosa: non simboleggia forse la regressione nell’amorfo e nell’indistinto, riacquistando uno stato nel quale tutti gli attributi si aboliscono e i contrari coincidono? Ma ecco, d’altra parte, che lo stesso insegnamento si decifra nell’idea del saggio e dell’asceta orientale; egli, con le sue tecniche e i suoi metodi contemplativi, mira a trascendere radicalmente tutte le qualità, quale che sia la loro natura. L’asceta, il saggio, il “mistico” indiano o cinese si sforza di sopprimere dalla sua esperienza e dalla sua coscienza gli “estremi” d’ogni specie, di raggiungere cioè uno stato di neutralità e di indifferenza perfette, farsi impermeabile al piacere e dolore, ecc., diventare automa. Questo superamento degli estremi mediante l’ascesi e la contemplazione termina anch’esso nella “coincidenza dei contrari”; la coscienza di un tal uomo non conosce più conflitti, e le coppie di contrari — piacere e dolore, desiderio e repulsione, freddo e caldo, piacevole e sgradevole, ecc. — sono scomparse dalla sua esperienza; contemporaneamente una “totalizzazione” avviene in lui, che corrisponde alla “totalizzazione” degli estremi in seno alla divinità. D’altronde, […] nella prospettiva orientale, la perfezione non è concepibile senza un’effettiva totalizzazione dei contrari. Il neofita comincia tentando di “cosmizzare” tutta la sua esperienza, assimilandola ai ritmi che dominano l’Universo (Sole e Luna), ma, una volta ottenuta questa “cosmizzazione”, volge tutto il suo sforzo a unificare il “Sole” e la “Luna”, cioè ad assumere il Cosmo tutto intero; rifà in sé e per proprio conto l’unità primordiale precedente la Creazione; unità che non significa il caos della pre-creazione, ma l’essere indifferenziato nel quale tutte le forme sono riassorbite» (Trattato, p. 434 s.).

Infine, evidenziando la coerenza, la permanenza, la perennità unite alla craetività delle idee religiose nella storia spirituale («l’unità fondamentale dei fenomeni religiosi e nello stesso tempo l’inesauribile novità delle loro espressioni», Storia delle credenze e delle idee religiose, I, p. 9), si possono, secondo Eliade, rivelare aspetti essenziali della condizione umana e giungere alla «creazione di nuovi valori culturali» che orientino verso un nuovo umanesimo. Come egli stesso rievoca, studiando il Rinascimento italiano e aprendosi poi all’Oriente, sognava di raggiungere un modello di uomo universale: «Più significativo è il fatto stesso di aver scelto l’India come campo principale delle mie ricerche, proprio nel momento in cui studiavo, in Italia, il Rinascimento italiano. In un certo modo potrei perfino affermare che per il giovane che ero l’orientalismo costituiva in fondo una nuova versione del Rinascimento, la scoperta di nuove fonti e il ritorno a fonti abbandonate e dimenticate. Forse, senza saperlo, ero in cerca di un nuovo umanesimo, più vasto, più audace dell’umanesimo del Rinascimento troppo dipendente dai modelli del classicismo mediterraneo. Forse anche avevo compreso, senza rendermene conto chiaramente, la vera lezione del Rinascimento: l’ampliamento dell’orizzonte culturale, e la situazione dell’uomo riconsiderata in una più vasta prospettiva. A prima vista, che cosa c’è di più lontano dalla Firenze di Marsilio Ficino che Calcutta, Benares, il Rishikesh? Eppure, io mi trovavo laggiù perché, proprio come gli umanisti del Rinascimento, non mi accontentavo di un’immagine provinciale dell’uomo e in fondo sognavo di ritrovare il modello di un “uomo universale”» Giornale, tr. it., Torino, Boringhieri, 1976, sett. 1957, p. 185). La successiva formulazione della “ermeneutica creativa” doveva portarlo a dare corpo e a precisare la fisionomia di questo uomo totale/universale: «Una ermeneutica creativa rivela significati che prima non erano afferrati o li mette in rilievo con tanto vigore che, dopo aver assimilato questa nuova interpretazione, la coscienza non è più la stessa. Alla fine, l’ermeneutica creativa cambia l’uomo: è più che una istruzione, è anche una tecnica spirituale suscettibile di modificare la qualità stessa dell’esistenza. […] Spero che il risultato di un confronto tra il moderno uomo occidentale e sconosciuti o meno noti mondi di significato possa far scaturire ciò che potremmo definire un “nuovo umanesimo”» (Nostalgia, p. 76 e 10 s.). L’uomo totale assume così l’ulteriore significato di uomo universale.

Riassumendo, carattere fondamentale dell’esistenza è quello di essere solo e separato dal mondo, per cui, incapace di sopportare tale separazione e disarmonia, è spinto a perseguire la relazione e l’unità, passando (potremmo dire per la legge dell’enantiodromismo e coerentemente con la dottrina buddhista dei 10 mondi) dall’egocentrismo fondato sul principium individuationis all’emergere dei bisogni unitivi come superiore affermazione della vita stessa (riconoscimento, empatia, solidarietà autorealizzativa, anelito alla Totalità), per cui i vari significati assunti dall’espressione “uomo totale” o “completo” sono quelli di:

uomo nella totalità delle sue dimensioni,

uomo la cui vita è santificata nella sua totalità,

uomo che si rapporta all’Assoluto o al Mondo nella sua totalità,

uomo universale come espressione dell’unità strutturale dell’umanità (sulla “piena” autorealizzazione e i bisogni specificamente umani, v. E. Fromm, Dalla parte dell’uomo e Psicanalisi della società contemporanea; A. Catemario, La contraddizione culturale nelle società complesse: l’etica universale; R. Venturini, Coscienza e cambiamento, una prospettiva transpersonale).

giovedì 1 aprile 2010

L'uomo totale o completo#2

Per Jung, l’espressione “uomo totale” è, in sostanza, sinonimo di uomo che ha ha compiuto o sta percorrendo il cammino di “individuazione”, di integrazione delle diverse parti della sua personalità per realizzare la sua completezza, quando si ha la «trasformazione dell’uomo, sino a quel momento frammentario, in un tutto unito e completo. Per quel che la totalità dell’uomo, il suo “Sé”, possa intrinsecamente significare, questo “Sé” costituisce empiricamente un’immagine dello scopo della vita prodotta spontaneamente dall’inconscio, al di là dei desideri e dei timori della coscienza. Esso rappresenta lo scopo dell’uomo totale, vale a dire la realizzazione della sua totalità e della sua individualità, consenziente o meno la sua volontà. Forza motrice di questo processo è l’istinto che provvede affinché tutto quanto deve far parte di una vita individuale ne faccia effettivamente parte, sia con, sia senza il consenso del soggetto, sia che questi abbia sia che non abbia coscienza di quanto sta avvenendo» (Opere, XI, p. 440). Perché il processo di individuazione possa realizzarsi è necessario accogliere quella «parte di personalità che l’uomo cosciente dovrebbe integrare per realizzare la sua completezza. È dapprima un frammento di scarsa importanza […] ma, allo stesso tempo, insieme a quel frammento che potrebbe completare la nostra coscienza rendendola una totalità, nell’inconscio è già presente anche quella stessa totalità, ossia l’homus totus degli alchimisti occidentali e l’uomo vero (chen-yen) degli alchimisti cinesi, l’essere primordiale sferico che rappresenta l’uomo interiore più grande, l’Anthropos che è affine alla divinità. È inevitabile che quest’uomo interiore sia in parte inconscio, poiché la coscienza in quanto semplice parte di un uomo non può coglierne la totalità. Ma l’uomo totale è sempre presente, dato che la scomposizione del fenomeno umano è un effetto della coscienza, che è composta soltanto di rappresentazioni sovraliminari» (Opere, XIV, p. 124 s.). E nota ancora che il chen-yen dell’alchimia cinese è l’uomo vero o completo, il tšloioj ¥nqrwpoj, che ha una strettissima affinità con l’homo quadratus dell’alchimia (v., ivi, p. 499, n. 126).

Quello che può mettersi «in corrispondentia col mondo» sarà, pertanto, non l’uomo empirico, «bensì l’ineffabile totalità dell’uomo psichico o spirituale, che non può essere descritto in quanto è composto dalla coscienza e dalla sfera, indeterminabile, dell’inconscio» (Opere, IX, p. 299). All’uomo totale viene riservata la possibilità di unione col mondo unitario, l’Unus mundus, permeato da un’intelligenza divina e ordinato secondo un disegno implicito nella realtà frammentata percepita dalla coscienza ordinaria. L’uomo totale realizza l’«unione dell’uomo, nella sua interezza con l’unus mundus, […] il mondo potenziale del primo giorno della creazione, quando ancora nulla era in actu, vale a dire nel Due e nella pluralità, ma era ancora Uno». Le riflessioni sul pensiero degli alchimisti hanno portato Jung a realizzare che l’unità di cui essi parlavano significava «l’unione con il mondo, non però con il mondo della molteplicità che noi vediamo, ma con un “mondo potenziale” che corrisponde all’eterno fondamento di ogni esistenza empirica, allo stesso modo in cui il Sé è il fondamento e l’origine della personalità e comprende quest’ultima nel passato, nel presente e nel futuro», in una coniunctio che «è universale; è la relazione o meglio l’identità dell’Atman personale con quello sovrapersonale e del Tao individuale con quello universale. Per un occidentale questo modo di vedere appare poco realistico, troppo intriso di “misticismo”; soprattutto egli non riesce a capire come mai un Sé dovrebbe realizzarsi, quando entra in rapporto con il mondo del primo giorno della creazione. Egli non può far entrare nel suo campo d’osservazione un mondo diverso da quello empirico […] Per trent’anni ho studiato questi processi psichici in tutte le condizioni possibili e mi sono reso conto che gli alchimisti, come i grandi filosofi dell’Oriente, si riferiscono sempre a queste stesse esperienze e che se esse ci appaiono “mistiche”, ciò è dovuto principalmente alla nostra ignoranza delle cose della psiche» (Opere, XIV, 2, p. 533 s.).

Di conseguenza, se ci portiamo sul piano della psicoterapia, per il nevrotico il percorso di guarigione coinciderà con il percorso di integrazione: «Dato che la nevrosi origina da uno stato frammentario della coscienza umana, essa può essere curata soltanto dalla totalità sia pure approssimativa dell’essere umano. Le idee religiose e le convinzioni hanno sempre avuto, dall’inizio della storia, l’aspetto di un farmaco mentale. Esse rappresentano il mondo dell’interezza in cui i frammenti possono essere riuniti e messi nuovamente insieme. Tale cura non può essere effettuata con pillole e iniezioni» (Letters, 1975, p. 625, cit. in A. Carotenuto, a cura di, Trattato di psicologia analitica, vol. II, Torino, UTET, 1992, p. 336). Quella che conta è, dunque, «la cura dell’uomo psichico nella sua totalità», perché l’oggetto della psicoterapia non è quella finzione chiamata nevrosi, bensì un essere umano disturbato nella sua totalità». È ben noto come per Jung, essendo la nevrosi «una sofferenza della psiche che non ha trovato significato» (Opere, XI, p. 314), nessuno guarisce veramente se non riesce a raggiungere un atteggiamento religioso», capace di dare al malato significato e «quello di cui ha bisogno per vivere, cioè fede, speranza, amore e conoscenza», grazie che sono legate all’esperienza, a «un rischio che esige l’incondizionato impegno dell’intera personalità» (pp. 314-15). Ma «cosa significa Uomo psichico nella sua totalità? […] Condivido pienamente l’idea secondo cui la psiche è un fattore biologico, ma al tempo stesso faccio notare che essa, ossia la coscienza, dunque, occupa un posto di eccezione fra tutti gli altri fattori biologici. Senza la coscienza non avremmo mai saputo che esiste il mondo; senza la psiche non sarebbe stata certamente possibile la conoscenza, perché l’oggetto deve sottostare a un complicato processo di trasformazione fisiologico e psichico prima di diventare definitivamente un’immagine psichica. Soltanto questa è oggetto immediato di conoscenza. Il mondo può esistere a due condizioni: essere, ed essere conosciuto. Il fatto che la psiche sia intesa come epifenomeno del corpo o come ens per se ha ben poca importanza in psicologia; la psiche sa di essere e si comporta come esistente, i quanto possiede una sua propria fenomenologia che niente può sostituire. […] “L’uomo psichico totale” su cui ci interrogavamo poc’anzi dimostra così di essere un mondo, un microcosmo», ma il concetto di psiche va ampliato includendovi i processi inconsci, per arrivare anzi alla coclusione essenziale che «la vera psiche è l’inconscio, mentre la coscienza dell’Io può essere considerata soltanto un epifenomeno temporaneo» (Opere, XVI, p. 99 s.).

Ci troviamo di fronte agli aspetti olistici del pensiero junghiano, per il quale la Totalità come espressione di pienezza di tutti gli aspetti della personalità è la meta dell’esistenza, da realizzare attraverso superamento e integrazione degli opposti. «Posso dominare un opposto solo in quanto, attraverso la percezione di entrambi, me ne libero giungendo così al centro. Là soltanto non sono più sottoposto agli opposti» (Opere, XI, p. 476 s.). Quando due opposti si uniscono e giungono a una sintesi il risultato sarà l’acquisizione di un più alto livello di totalità, per cui, nel nostro contesto culturale, è di massima importanza l’integrazione di quegli aspetti, come il femminile e il male/distruttività, che sono stati rimossi nella tradizione cristiana. I risvolti terapeutici di questo orientamento sono evidenti e Jung afferma: «il processo naturale dell’individuazione è diventato per me il modello del metodo di trattamento», anche se non manca poi di rilevare che «esistono senza dubbio individui i quali, in ultima analisi, non sono completamente adatti a vivere e affondano rapidamente quando, per un qualsiasi motivo, vengono a scontrarsi con la loro totalità. Ma se questa condizione non si verifica possono tirare avanti la loro esistenza fino a tarda età come frammenti, come personalità mutili, sorretti da un parassitismo sociale o psichico» (Opere, VII, p. 112). E non vanno, infine, dimenticate quelle forme di avidità della totalità che altro non sono che fughe dai conflitti psichici. (continua)