Come dobbiamo intendere l’espressione “vita aperta”, espressione che troviamo presente nel linguaggio quotidiano e in più di un autore? Aperto è evidentemente contrapposto a chiuso; dunque, una esistenza che non si voglia chiusa a cosa sarà aperta? Intanto alla vita stessa, alla sua ricchezza, profondità e imprevedibilità, perché un’esistenza, che voglia raggiungere o approssimarsi alla propria autorealizzazione, non può rimanere chiusa all’esperienza. Così, dall’“aprire il cuore” (sineddoche per vita) al dolore, al domani, alla fede derivano anche l’essere aperti all’incontro, al dialogo, all’amore. Ma c’è un’altra apertura, che fa riferimento alla vita spirituale, forse più difficile da determinare e capire. Ci viene in aiuto Eliade, che usa questa espressione nella sua fenomenologia della vita religiosa. Nell’homo religiosus «la vita è vissuta su due piani: si sviluppa in quanto esistenza umana e, contemporaneamente, fa parte di una vita transumana, quella del Cosmo o degli dèi» (S&P, p. 132); «si potrebbe, pertanto, chiamarla un’“esistenza aperta”, non essendo particolarmente limitata al modo d’essere dell’uomo […]. L’esistenza dell’homo religiosus, soprattutto del primitivo, è “aperta” al Mondo; l’uomo religioso, vivendo, non è mai solo poiché una parte del Mondo vive in lui. […] In altre parole, il simbolismo cosmco aggiunge un nuovo significato a un oggetto o ad un’azione senza per questo attentare ai loro valori specifici immediati. Un’esistenza “aperta” al Mondo non è un’esistenza inconscia, sepolta nella Natura. L’“apertura” verso il Mondo mette in grado l’uomo religioso di conoscersi conoscendo il Mondo, conoscenza preziosa in quanto “religiosa”, in quanto riferita all’Essere» (ivi, p.131).
Per essere in comunicazione con gli dèi e partecipare alla santità del Mondo egli «aspira a collocarsi in un “Centro”, laddove esiste la possibilità di comunicare con gli dèi» (p. 136). Attraverso varie identificazioni antropocosmiche, Cosmo, casa, corpo umano acquistano la possibilità di ricevere una maggiore “apertura” che rende possibile il passaggio a un altro mondo: apertura superiore di una torre, apertura del tetto, apertura in cima al cranio (e usanza di spezzare il cranio per facilitare la dipartita dell’anima, che esce dal camino o dal tetto, nel quale si possono togliere o spezzare tegole, p. 137), tutte aperture superiori che agevolano i passaggi. «Un territorio abitato, un Tempio, una casa, un corpo, sono, come s’è visto dei cosmi. Ma tutti questi Cosmi, ciascuno secondo il proprio modo d’essere, conservano un’“apertura”, qualunque sia l’espressione scelta dalle diverse culture […]. In un modo o nell’altro, il Cosmo abitato — corpo, casa, territorio tribale, tutto questo mondo nella sua totalità — comunica dall’alto con un altro livello che lo trascende» (p. 139). La filosofia e la mistica fra «tutti i simboli che potevano significare la rottura ontologica e la trascendenza, hanno preferito scegliere questa imagine primordiale dello spezzamento del tetto. Il superamento della condizione umana si traduce, in senso figurato, nell’annientamento della “casa”, cioè del Cosmo personale scelto come dimora» (p. 139 s.). Ricordiamo che anche il Buddha adoperò la stessa metafora della casa e del tetto spezzato: «Lungo innumerevoli esistenze son corso invano, cercando il costruttore della casa. Doloroso è tornare a nascere di volta in volta. Costruttore della casa, sei stato riconosciuto! Non erigerai più la casa! Tutte le travi sono state difatte, la traversa del tetto è stata distrutta. La mente si è liberata dai coefficienti, è giunta al termine di ogni sete» (Dhp., 153-54).
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