Per Jung, l’espressione “uomo totale” è, in sostanza, sinonimo di uomo che ha ha compiuto o sta percorrendo il cammino di “individuazione”, di integrazione delle diverse parti della sua personalità per realizzare la sua completezza, quando si ha la «trasformazione dell’uomo, sino a quel momento frammentario, in un tutto unito e completo. Per quel che la totalità dell’uomo, il suo “Sé”, possa intrinsecamente significare, questo “Sé” costituisce empiricamente un’immagine dello scopo della vita prodotta spontaneamente dall’inconscio, al di là dei desideri e dei timori della coscienza. Esso rappresenta lo scopo dell’uomo totale, vale a dire la realizzazione della sua totalità e della sua individualità, consenziente o meno la sua volontà. Forza motrice di questo processo è l’istinto che provvede affinché tutto quanto deve far parte di una vita individuale ne faccia effettivamente parte, sia con, sia senza il consenso del soggetto, sia che questi abbia sia che non abbia coscienza di quanto sta avvenendo» (Opere, XI, p. 440). Perché il processo di individuazione possa realizzarsi è necessario accogliere quella «parte di personalità che l’uomo cosciente dovrebbe integrare per realizzare la sua completezza. È dapprima un frammento di scarsa importanza […] ma, allo stesso tempo, insieme a quel frammento che potrebbe completare la nostra coscienza rendendola una totalità, nell’inconscio è già presente anche quella stessa totalità, ossia l’homus totus degli alchimisti occidentali e l’uomo vero (chen-yen) degli alchimisti cinesi, l’essere primordiale sferico che rappresenta l’uomo interiore più grande, l’Anthropos che è affine alla divinità. È inevitabile che quest’uomo interiore sia in parte inconscio, poiché la coscienza in quanto semplice parte di un uomo non può coglierne la totalità. Ma l’uomo totale è sempre presente, dato che la scomposizione del fenomeno umano è un effetto della coscienza, che è composta soltanto di rappresentazioni sovraliminari» (Opere, XIV, p. 124 s.). E nota ancora che il chen-yen dell’alchimia cinese è l’uomo vero o completo, il tšloioj ¥nqrwpoj, che ha una strettissima affinità con l’homo quadratus dell’alchimia (v., ivi, p. 499, n. 126).
Quello che può mettersi «in corrispondentia col mondo» sarà, pertanto, non l’uomo empirico, «bensì l’ineffabile totalità dell’uomo psichico o spirituale, che non può essere descritto in quanto è composto dalla coscienza e dalla sfera, indeterminabile, dell’inconscio» (Opere, IX, p. 299). All’uomo totale viene riservata la possibilità di unione col mondo unitario, l’Unus mundus, permeato da un’intelligenza divina e ordinato secondo un disegno implicito nella realtà frammentata percepita dalla coscienza ordinaria. L’uomo totale realizza l’«unione dell’uomo, nella sua interezza con l’unus mundus, […] il mondo potenziale del primo giorno della creazione, quando ancora nulla era in actu, vale a dire nel Due e nella pluralità, ma era ancora Uno». Le riflessioni sul pensiero degli alchimisti hanno portato Jung a realizzare che l’unità di cui essi parlavano significava «l’unione con il mondo, non però con il mondo della molteplicità che noi vediamo, ma con un “mondo potenziale” che corrisponde all’eterno fondamento di ogni esistenza empirica, allo stesso modo in cui il Sé è il fondamento e l’origine della personalità e comprende quest’ultima nel passato, nel presente e nel futuro», in una coniunctio che «è universale; è la relazione o meglio l’identità dell’Atman personale con quello sovrapersonale e del Tao individuale con quello universale. Per un occidentale questo modo di vedere appare poco realistico, troppo intriso di “misticismo”; soprattutto egli non riesce a capire come mai un Sé dovrebbe realizzarsi, quando entra in rapporto con il mondo del primo giorno della creazione. Egli non può far entrare nel suo campo d’osservazione un mondo diverso da quello empirico […] Per trent’anni ho studiato questi processi psichici in tutte le condizioni possibili e mi sono reso conto che gli alchimisti, come i grandi filosofi dell’Oriente, si riferiscono sempre a queste stesse esperienze e che se esse ci appaiono “mistiche”, ciò è dovuto principalmente alla nostra ignoranza delle cose della psiche» (Opere, XIV, 2, p. 533 s.).
Di conseguenza, se ci portiamo sul piano della psicoterapia, per il nevrotico il percorso di guarigione coinciderà con il percorso di integrazione: «Dato che la nevrosi origina da uno stato frammentario della coscienza umana, essa può essere curata soltanto dalla totalità sia pure approssimativa dell’essere umano. Le idee religiose e le convinzioni hanno sempre avuto, dall’inizio della storia, l’aspetto di un farmaco mentale. Esse rappresentano il mondo dell’interezza in cui i frammenti possono essere riuniti e messi nuovamente insieme. Tale cura non può essere effettuata con pillole e iniezioni» (Letters, 1975, p. 625, cit. in A. Carotenuto, a cura di, Trattato di psicologia analitica, vol. II, Torino, UTET, 1992, p. 336). Quella che conta è, dunque, «la cura dell’uomo psichico nella sua totalità», perché l’oggetto della psicoterapia non è quella finzione chiamata nevrosi, bensì un essere umano disturbato nella sua totalità». È ben noto come per Jung, essendo la nevrosi «una sofferenza della psiche che non ha trovato significato» (Opere, XI, p. 314), nessuno guarisce veramente se non riesce a raggiungere un atteggiamento religioso», capace di dare al malato significato e «quello di cui ha bisogno per vivere, cioè fede, speranza, amore e conoscenza», grazie che sono legate all’esperienza, a «un rischio che esige l’incondizionato impegno dell’intera personalità» (pp. 314-15). Ma «cosa significa Uomo psichico nella sua totalità? […] Condivido pienamente l’idea secondo cui la psiche è un fattore biologico, ma al tempo stesso faccio notare che essa, ossia la coscienza, dunque, occupa un posto di eccezione fra tutti gli altri fattori biologici. Senza la coscienza non avremmo mai saputo che esiste il mondo; senza la psiche non sarebbe stata certamente possibile la conoscenza, perché l’oggetto deve sottostare a un complicato processo di trasformazione fisiologico e psichico prima di diventare definitivamente un’immagine psichica. Soltanto questa è oggetto immediato di conoscenza. Il mondo può esistere a due condizioni: essere, ed essere conosciuto. Il fatto che la psiche sia intesa come epifenomeno del corpo o come ens per se ha ben poca importanza in psicologia; la psiche sa di essere e si comporta come esistente, i quanto possiede una sua propria fenomenologia che niente può sostituire. […] “L’uomo psichico totale” su cui ci interrogavamo poc’anzi dimostra così di essere un mondo, un microcosmo», ma il concetto di psiche va ampliato includendovi i processi inconsci, per arrivare anzi alla coclusione essenziale che «la vera psiche è l’inconscio, mentre la coscienza dell’Io può essere considerata soltanto un epifenomeno temporaneo» (Opere, XVI, p. 99 s.).
Ci troviamo di fronte agli aspetti olistici del pensiero junghiano, per il quale la Totalità come espressione di pienezza di tutti gli aspetti della personalità è la meta dell’esistenza, da realizzare attraverso superamento e integrazione degli opposti. «Posso dominare un opposto solo in quanto, attraverso la percezione di entrambi, me ne libero giungendo così al centro. Là soltanto non sono più sottoposto agli opposti» (Opere, XI, p. 476 s.). Quando due opposti si uniscono e giungono a una sintesi il risultato sarà l’acquisizione di un più alto livello di totalità, per cui, nel nostro contesto culturale, è di massima importanza l’integrazione di quegli aspetti, come il femminile e il male/distruttività, che sono stati rimossi nella tradizione cristiana. I risvolti terapeutici di questo orientamento sono evidenti e Jung afferma: «il processo naturale dell’individuazione è diventato per me il modello del metodo di trattamento», anche se non manca poi di rilevare che «esistono senza dubbio individui i quali, in ultima analisi, non sono completamente adatti a vivere e affondano rapidamente quando, per un qualsiasi motivo, vengono a scontrarsi con la loro totalità. Ma se questa condizione non si verifica possono tirare avanti la loro esistenza fino a tarda età come frammenti, come personalità mutili, sorretti da un parassitismo sociale o psichico» (Opere, VII, p. 112). E non vanno, infine, dimenticate quelle forme di avidità della totalità che altro non sono che fughe dai conflitti psichici. (continua)
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