Come nel
buddhismo le paramita sono qualcosa di più di semplici, ordinarie condotte
buone perché illuminate dalla coscienza della Vacuità, così nel cristianesimo
la pazienza diviene summa virtus, essenziale alla fede, alla speranza («La
tribolazione produce pazienza, la pazienza esperienza e l’esperienza speranza»,
Rm 5, 3-5) e alla carità, quando è innestata nella fede in Cristo. Seguendo le
osservazioni di Enzo Bianchi (in Le parole della spiritualità), innanzitutto
vediamo che la Scrittura attesta che la pazienza è innanzitutto una prerogativa
divina. In Es 34, 6 Dio è longanime, magnanimo, lento all’ira (cioè paziente);
è un Dio che parla e, parlando, lascia tempo all’uomo per rispondere,
attendendo che possa arrivare alla conversione: «Il Signore non ritarda nell’adempiere
la sua promessa; ma usa pazienza verso di voi, non volendo che alcuno perisca,
ma che tutti abbiano modo di pentirsi» (2 Pt
3, 9). Nella passione del Figlio crocifisso si registra il massimo di
distanza tra Dio che pazienta e umanità peccatrice, ma da allora la pazienza,
come virtù cristiana, è un dono dello Spirito (Gal 5, 22), elargito dal
Crocifisso-Risorto, «che si configura come partecipazione alle energie che provengono
dall’evento pasquale» (Bianchi).
Saper
pazientare significa, dunque, assumere nella propria esistenza il tempo di Dio
e dell’altro, in un’opera di amore («La carità è paziente» 1 Cor 3, 4), la cui
misura è nella pazienza di Cristo («Il Signore diriga i vostri cuori nell’amore
di Dio e nella pazienza di Cristo», 2 Ts 3, 5).
Umile nella
coscienza della incompiutezza, di sé e degli altri, la pazienza diviene
speranza e attesa di salvezza, perseveranza della fede nel tempo, ancorata alla
promessa che «chi persevera fino alla fine sarà salvato» (Mt 10, 22), capacità
di sopportare e supportare gli altri nella fiduciosa convinzione «di essere a
propria volta sostenuti dalle braccia del Cristo stese sulla croce» (Bianchi).
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