Jep Gambardella, 65 anni scrittore disincantato, piombato a Roma, fa i
conti con questa città, con la sua bellezza e il suo degrado, in una sorta di
felliniana Dolce vita cinquant’anni dopo. Jep calato in una “mondanità”
fatta da una babilonia di giornalisti, artisti, personaggi corrotti e
criminali, donne fuori controllo, nobili decaduti, illusionisti, pseudo-intellettuali
con una cultura che sopravvive solo come orpello, è stato autore di un solo
romanzo e ora non scrive più; divenuto giornalista si adatta a fare interviste,
vorrebbe cogliere cosa c’è dietro certe parole (vibrazioni, energia...) che
circolano come gettoni che tutti riadoperano e fingono di autenticare in una
falsità concordata, ma anche qui la realtà sfugge alla presa. Sullo sfondo di
una Roma troppo bella, indifferente e stanca, fantasie, immaginazioni, bugie,
rapporti inconsistenti si declinano in una rapsodia di sensazioni irrelate come
i desideri che non sono più tali, ma scadono a bisogni nella loro più volgare e
malata grossolanità, ove tutto è provvisorio, sconnesso, a volte disgustoso. Il
film segue questi mondi alienati nei quali Jep vorrebbe almeno un minimo di
autenticità, uscendo dalla logica del disprezzo reciproco per far posto a un
atteggiamento più compassionevole di accettazione e di sostegno reciproco, come
lui cerca di mettere in atto. Vediamo così contrapposti Stefania, intellettuale
di sinistra, saccente e giudicante in nome di una sua presuntuosa e falsa
diversità, e che Jep non esita a smascherare, e gli sconfitti Romano (Carlo
Verdone), attore teatrale frustrato e avvilito, e Ramona (Sabrina Ferilli),
spogliarellista al tramonto, guardati con tenerezza e sincerità. E poi Viola,
ricca borghese con un figlio disadattato, il cardinale Bellucci (Roberto
Herlitzka), chiuso nelle sue manie e sordo a tutte le domande, l’ambigua figura
della “santa”, e via enumerando.
La grande bellezza di Roma, che nel film compare in due lunghi “fuori
testo”, iniziale e finale, rimane inattingibile, troppo violenta per essere
(come tutte le manifestazioni del sacro) affrontata nella sua diretta pienezza
(vedi l’ingenuo turista giapponese che stramazza al suolo, vittima della
sindrome di Stendhal), ma da prendere solo per «sparuti, incostanti sprazzi».
Il film ha l’andamento caotico necessario per esprimere i vissuti
contraddittori e tormentati del protagonista, ma riesce — a parte qualche
momento stanco e ripetitivo — a conquistare lo spettatore coinvolgendolo nel
grande ventaglio di situazioni e personaggi che, in certi ambienti e livelli di
vita, non sono finzioni ma verità (come accadeva col realismo fantastico dei
film di Fellini). «Le radici sono importanti», dice la “santa”, sia in senso
proprio che figurato, e Jep torna al “primo incontro” con la (sola) donna che
ha amato e da anni perduta. Poi, è la sua consapevolezza, tutto finisce con la
morte, ma prima c’è stata la vita coi suoi momenti di sincerità, nascosta sotto
il rumore, l’incoscienza programmata, lo stordimento, lo squallore: «tutto
sepolto sotto la coperta dell’imbarazzo dello stare al mondo», per proteggersi,
coi mezzi offerti dalla (in)civiltà in cui ci troviamo, dalla paura della vita
e della morte. Si potrebbe parlare d’altro, «Altrove, c’è l’altrove. Ma io non
mi occupo dell’altrove», dice il protagonista che, abbandonato l’inseguimento
della “grande bellezza”, dopo questo viaggio agli inferi, riprenderà a
scrivere: il romanzo potrà dunque cominciare, tanto, anche questo, sarà solo un
trucco...
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