Tra filosofi balbettanti, “scrivitori” inesistenti, politici
bercianti e gaglioffi populisti, vola alto l’argomentare di papa Benedetto. Vediamo
come, in un recente discorso sul battesimo (Discorso di apertura del Convegno ecclesiale
della Diocesi di Roma, 11 06 12), egli si sofferma sul significato di questo
sacramento come rito di morte e di rinascita, e su diversi aspetti di esso: l’argomento
merita qualche nostra riflessione.
1.
È sconveniente parlare di iniziazione? - In primo luogo, leggiamo come egli
tratta dell’elemento materiale del rito, l’acqua. Dice il Papa: «È molto importante vedere due significati
dell’acqua. Da una parte, l’acqua fa pensare al mare, soprattutto al Mar Rosso,
alla morte nel Mar Rosso. Nel mare si rappresenta la forza della morte, la
necessità di morire per arrivare ad una nuova vita. Questo mi sembra molto
importante. Il Battesimo non è solo una cerimonia, un rituale introdotto tempo
fa, e non è nemmeno soltanto un lavaggio, un’operazione cosmetica. È molto più
di un lavaggio: è morte e vita, è morte di una certa esistenza e rinascita,
risurrezione a nuova vita. Questa è la profondità dell’essere cristiano: non
solo è qualcosa che si aggiunge, ma è una nuova nascita. Dopo aver attraversato
il Mar Rosso, siamo nuovi. Così il mare, in tutte le esperienze dell’Antico
Testamento, è divenuto per i cristiani simbolo della Croce. Perché solo
attraverso la morte, una rinuncia radicale nella quale si muore ad un certo
tipo di vita, può realizzarsi la rinascita e può realmente esserci vita nuova.
Questa è una parte del simbolismo dell’acqua: simboleggia — soprattutto nelle
immersioni dell’antichità — il Mar Rosso, la morte, la Croce. Solo dalla Croce
si arriva alla nuova vita e questo si realizza ogni giorno. Senza questa morte
sempre rinnovata, non possiamo rinnovare la vera vitalità della nuova vita di
Cristo. Ma l’altro simbolo è
quello della fonte. L’acqua è origine di tutta la vita; oltre al simbolismo
della morte, ha anche il simbolismo della nuova vita. Ogni vita viene anche
dall’acqua, dall’acqua che viene da Cristo come la vera vita nuova che ci
accompagna all’eternità».
Chi abbia qualche memoria di storia delle religioni non avrà difficoltà
a riconoscere nel battesimo una forma cristiana di “iniziazione”, anche se questa
parola non compare nei discorsi di B XVI, come teleté, termine tecnico dei misteri e delle iniziazioni ai misteri
— notava Eliade — non viene mai usato da San Paolo: probabilmente, perché si
ritiene più opportuno evitare tutto quello che potrebbe togliere credito alla
presunta “peculiarità” del cristianesimo, mostrandolo condiviso anche da altri
percorsi spirituali. Nelle parole di Benedetto XVI sembrano invece ben riconoscibili
quelle di M. Eliade che, in La
nascita mistica, scriveva: «Gli elementi iniziatici del cristianesimo
primitivo dipendono semplicemente dal fatto che l’iniziazione, è una dimensione
che coesiste a ogni rivalorizzazione della vita religiosa. Non si può accedere
a un modo d’essere superiore, non si può partecipare a una nuova irruzione di
santità nel mondo o nella storia se non “morendo” all’esistenza profana, non illuminata,
e rinascendo a una vita nuova, rigenerata» (p. 174). Infatti, in Gv 3, 3 ss.: «“In verità, in verità ti dico, nessuno può
vedere il regno di Dio se non nasce nuovamente”. Gli disse Nicodèmo: “Come può
un uomo nascere quando è vecchio? Può forse entrare una seconda volta nel
grembo di sua madre e rinascere?”. Gli rispose Gesù: “In verità, in verità ti
dico, se uno non nasce da acqua e da Spirito, non può entrare nel regno di Dio.
Quel che è nato dalla carne è carne e quel che è nato dallo Spirito è Spirito.
Non ti meravigliare se t’ho detto: dovete nascere di nuovo”».
Il cristianesimo vittorioso operò una cristianizzazione non solo
della filosofia greca e delle istituzioni giuridiche romane, ma anche dei culti
dei morti e dei rituali di fertilità del mondo antico, dell’«eredità
immemoriale degli dèi e degli eroi, dei riti e costumi popolari. Questa
assimilazione massiccia apparteneva alla dilettica stessa del cristianesimo. In
quanto religione universalistica, il cristianesimo era obbligato a convalidare
tutti i “provincialismi” religiosi e culturali dell’ecumene e a trovare loro un denominatore comune. Questa grandiosa
unificazione non poteva essere attuata se non traducendo in termini cristiani
tutte le forme, le figure e i valori che si volevano ratificare». Il tema
iniziatico arcaico dell’iniziazione venne ri-consacrato collegandolo
direttamente alla vita e alla morte di Gesù, ma gli antichi scenari sono ancora
riconoscibili nel suo messaggio, «perché l’iniziazione fa parte integrante di
ogni nuova rivelazione religiosa» (p. 175).
«Perché non è sufficiente per il discepolato conoscere le dottrine di
Gesù, conoscere i valori cristiani? Perché è necessario essere battezzati?», si
domanda papa Ratzinger. Come abbiamo visto, con l’iniziazione battesimale si
deve passare attraverso una morte simbolica (quella attraverso la quale passano
gli iniziandi delle diverse tradizioni) per poter nascere a una nuova vita,
sottratta alla malattia, alla sofferenza e alla morte: una vita eterna. Dunque
è il non-detto iniziatico quello che rende necessario il battesimo.
2. Resurrezione cristiana: esclusiva e storica? - Veniamo a un secondo punto. Se
l’iniziato ai misteri è rigenerato per virtù di atti sacrali che lo rendono
partecipe del destino del dio e della sua resurrezione, il cristiano rivive in
Cristo mediante la partecipazione sacramentale ai suoi carismi, qual è il
fondamento che conferisce al battesimo il suo valore sacramentale? Il
fondamento è nel riconoscimento di Gesù come figlio di Dio, riconoscimento validato
a sua volta dalla certezza della sua risurrezione, affermata nella sua
specificità e storicità. È quasi d’obbligo, a questo punto, richiamare il
famoso passo di S. Paolo, in cui dice: «Se
Cristo non è risorto, allora è vana la nostra predicazione ed è vana anche la
vostra fede. Noi, poi, risultiamo falsi testimoni di Dio, perché contro Dio
abbiamo testimoniato che egli ha risuscitato Cristo, mentre non lo ha
resuscitato, se è vero che i morti non risorgono» (1 Cor 15, 14 s.), passo tanto
importante che, come sottolinea Papa Ratzinger, «l’essere cristiani significa
essenzialmente la fede nel Risorto» (Benedetto XVI, Gesù di Nazaret, II parte, Città del Vaticano, LEV, 2011, p. 289). Su
questo lo storico e teologo Paolo
Ricca, pastore valdese, dice: «Nessun’altra religione umana è fondata sulla
Risurrezione. Questa è la specificità e l’unicità del cristianesimo. “Il
Signore è veramente risuscitato” (Lc 24, 34): non apparentemente (cioè è risuscitato solo nel nostro ricordo di lui,
che resta incancellabile); non probabilmente
(chissà, forse sì, forse no); non simbolicamente
(la Risurrezione come metafora delle inesauribili energie vitali della natura,
del cosmo e anche dell’umanità che sempre riemergono e in tanti modi si
perpetuano). No, Gesù è veramente risuscitato» (in Jesus, apr. 2004, p. 25). Pur senza approfondire l’affermazione della “specificità”, non
condivisibile in quanto in altre religioni non mancano morti e resurrezioni di
divinità, accettabili per le culture del mondo antico (Tammuz, Osiride, Adone, Ippolito,
per citarne alcune di queste divinità…), taciute forse perché la comparazione risulterebbe,
anche in questo caso, fastidiosa se non imbarazzante per chi vuole sottolineare
l’unicità del cristianesimo, non si può ignorare che affermazioni sulla
“oggettività” della risurrezione di Gesù così marmoree e indiscutibili come
quelle riportate appaiono oggi poco “digeribili” non solo per la mentalità
moderna che si definisce laica, ma anche per quei teologi (di una “teologia debole”)
che ritengono il racconto delle resurrezione vada visto come “leggenda
eziologica”, ossia un artificio per suffragare il culto che i giudeo-cristiani
riservavano al luogo della sepoltura di Gesù, per cui il teologo non dovrebbe più
dire «Cristo è risorto», ma «i discepoli affermavano che egli è risorto», tanto
più che sia gli evangelisti che S. Paolo non avendo assistito alla resurrezione
l’annunciano, ma non la descrivono. Papa Benedetto, che non vuole ovviamente
rinunciare alla visione tradizionale della storicità della risurrezione, ne
“raffina” la trattazione, affermando che essa è un avvenimento reale, anche se di
una realtà sui generis, che «va al di
là della storia, ma ha lasciato la sua impronta nella storia. Per questo può
essere attestata da testimoni come un evento di una qualità tutta nuova» (op. cit., p. 305): con «la risurrezione
è avvenuto un salto ontologico che tocca l’essere come tale, è stata inaugurata
una dimensione che ci interessa tutti e che ha creato per tutti noi un nuovo
ambito della vita, dell’essere con Dio» (p. 304), trattandosi di un «radicale
salto di qualità in cui si dischiude una nuova dimensione della vita,
dell’essere uomini» (p. 303). Dunque storicità sì, ma una storicità del tutto speciale quella del racconto evangelico.
La verità è nel racconto (mýthos), ma
quando un racconto è da considerare vero?
Un racconto è vero quando rientra nel rapporto di “complicità” tra narrante e
ascoltatore/lettore che stabiliscono un patto di credibilità che non può venire
infranto, pena la perdita di credibilità. E oggi, per i tanti che non si riconoscono
più in quel patto, il racconto risulta privo di attendibilità ”storica” e,
insieme ad altri racconti biblici, può continuare a vivere solo se si colloca su
piano simbolico-metaforico .
3. Forza e fragilità delle fedi. - Infine, come il battesimo, ormai “certificato” nella sua forza
sacramentale, opererebbe per realizzare la trasformazione promessa? Commentando
le parole di Gesù, in Mt 28, 19, Benedetto XVI si abbandona a una spericolata e sottile argomentazione
teologico-linguistica. Seguiamolo: «La scelta della parola “nel nome del Padre” nel testo greco è
molto importante: il Signore dice eis e non en, cioè non “in nome”
della Trinità – come noi diciamo che un vice prefetto parla “in nome” del prefetto,
un ambasciatore parla “in nome” del governo: no. Dice: “eis to onoma”,
cioè una immersione nel nome della Trinità, un essere inseriti nel nome della
Trinità, una interpenetrazione dell’essere di Dio e del nostro essere, un
essere immerso nel Dio Trinità, Padre, Figlio e Spirito Santo, così come nel
matrimonio, per esempio, due persone diventano una carne, diventano una nuova,
unica realtà, con un nuovo, unico nome». Dalle parole di Gesù: «Voi non sapete
che Dio si chiama Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe?» (cfr. Mt 22,31-32),
B. XVI fa scaturire questo ragionamento: «Dio prende questi tre e proprio nel
suo nome essi diventano il nome di Dio. Per capire chi è questo Dio si
devono vedere queste persone che sono diventate il nome di Dio, un nome di Dio,
sono immersi in Dio. E così vediamo che chi sta nel nome di Dio, chi è immerso
in Dio, è vivo, perché Dio — dice il Signore — è un Dio non dei morti, ma dei
vivi, e se è Dio di questi, è Dio dei vivi; i vivi sono vivi perché stanno
nella memoria, nella vita di Dio. E proprio questo succede nel nostro essere
battezzati: diventiamo inseriti nel nome di Dio, così che apparteniamo a questo
nome e il Suo nome diventa il nostro nome e anche noi potremo, con la nostra
testimonianza — come i tre dell’Antico Testamento —, essere testimoni di Dio,
segno di chi è questo Dio, nome di questo Dio. Quindi, essere battezzati vuol
dire essere uniti a Dio; in un’unica, nuova esistenza apparteniamo a Dio, siamo
immersi in Dio stesso». E, finalmente, ritornando alla Parola di Cristo ai sadducei:
«Dio è il Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe» (cfr Mt 22,32), B XVI dice:
questi «non sono morti; se sono di Dio sono vivi. Vuol dire che con il
Battesimo, con l’immersione nel nome di Dio, siamo anche noi già immersi nella
vita immortale, siamo vivi per sempre. Con altre parole, il Battesimo è una
prima tappa della Risurrezione: immersi in Dio, siamo già immersi nella vita
indistruttibile, comincia la Risurrezione. Come Abramo, Isacco e Giacobbe
essendo “nome di Dio” sono vivi, così noi, inseriti nel nome di Dio, siamo vivi
nella vita immortale. Il Battesimo è il primo passo della Risurrezione,
l’entrare nella vita indistruttibile di Dio». Essere nome, volto, voce, gesto
di qualcuno significa essere suo attributo, far parte di lui, essere lui.
Dunque Dio, vivo di vita eterna, fa anche noi «vivi per sempre».
Ma è, la vita di Dio, indipendente dalla nostra? Nel gioco dei riconoscimenti, l’uomo è in
perenne ricerca di Dio, ma poi acquisisce anche la consapevolezza che «Dio ha
bisogno degli uomini» (tit. del film di J. Delannoy, dal romanzo Un
recteur de l'Île de Sein
di H. Quéffelec), conquistando così una nuova dignità, che gli permette di dire
(con le parole di R. M. Rilke, Il libro
d’ore, tr. it. in Poesie, I,
Torino, Einaudi-Gallimard, 1994, p. 141): «Che farai, Dio, se muoio?/Sono la
tua brocca (e se mi spacco?)./Sono la tua acqua (e se mi appesto?)./Io sono la
tua veste, il tuo strumento/senza di me non hai alcun senso./Non hai più casa,
se muoio, che t’accolga/con parole calde e amiche; dai tuoi piedi/stanchi
scivolano via i sandali/di velluto perché i sandali sono io».
La storia e la fenomenologia delle religioni ci dicono che neppure le
divinità sono permanenti e, come tali, sono pertanto dipendenti da altro
(insegnamento buddhista). Dove sono, infatti, le divinità prive di culto, quelle
non più pregate e il cui nome è ormai dimenticato? Senza andare troppo lontano
che ne è del nome e degli attibuti di Zeus, il grande dio della nostra
tradizione classica? Estinto, spento, caduto nell’oblio? Eppure, come Pausania
ci ricorda (Viaggio in Grecia, V, 11,
1) fino a non molto tempo fa era vicino a noi e a Olimpia la colossale statua,
capolavoro di Fidia, elevata tra il 466 e il 456 a. C., era sentita come la
rappresentazione della concezione omerica di Zeus: «Il dio, fatto d’oro e
d’avorio, è seduto in trono. Gli sta sulla testa una corona lavorata in forma
di ramoscelli d’ulivo. Nella mano destra regge una Nike, anch’essa
criselefantina, con una benda e, sulla testa una corona. Nella mano sinistra del dio è uno scettro
ornato di ogni tipo di metallo, e l’uccello che sta posato sullo scettro è
l’aquila. D’oro sono anche i calzari del dio e così pure il manto. Nel manto
sono ricamate figurine di animali e fiori di giglio». Quella statua era una così
perfetta riproduzione del vero sembiante del dio che produceva sbigottimento in
coloro che, vedendola, credevano di essere alla presenza dello stesso Zeus.
Siamo tanto lontani dagli effetti della visione dell’icona del Cristo Pantocrator?
Il ragionamento va dunque rovesciato: finché siamo vivi e pensanti, diamo nomi,
volti, attributi a divinità che sono le meravigliose e ipostatiche rappresentazioni
del Sé, ma quando le visioni del mondo e le rappresentazioni collettive di un
popolo si modificano o quando, su scala individuale, la coscienza si estingue,
il potere del sacramento di agire «per
propria ed intima efficacia» (ex
opere operato) non può tenere in vita né uomini né dèi. In questo, il
cristianesimo non fa eccezione e le pretese, speciali peculiarità o l’affermata
verità storica degli avvenimenti evangelici rientrano nella “verità” del mito (racconto),
basata sulla accettazione condivisa di essa da parte di una cultura e degli
individui suoi componenti.
Quando Papa Benedetto parla
di desertificazione spirituale («In questi decenni è avanzata una “desertificazione”
spirituale. […] È il vuoto che si è diffuso. Ma è proprio a partire
dall’esperienza di questo deserto, da questo vuoto che possiamo nuovamente
scoprire la gioia di credere, la sua importanza vitale per noi uomini e donne.
Nel deserto si riscopre il valore di ciò che è essenziale per vivere; così nel
mondo contemporaneo sono innumerevoli i segni, spesso espressi in forma
implicita o negativa, della sete di Dio, del senso ultimo della vita. E nel deserto
c’è bisogno soprattutto di persone di fede che, con la loro stessa vita,
indicano la via verso la Terra promessa e così tengono desta la speranza»;
omelia del 11 10 12) non fa altro che sottolineare il declino della fede
cristiana che porta in sé l’esigenza di spiritualità, ma in forme compatibili
con la società moderna più di quanto non lo sia il monoteismo
giudaico-cristiano: ecco l’attualità delle parole di S. Paolo che richiama
l’attenzione sulla possibilità di una fede di divenire vuota (kenè, inanis) e illusoria (mataía,
stulta).
Benedetto XVI, ammirevole per la sua
opera di evangelizzazione, rimane una grande presenza e testimonianza di
cultura, per cui dispiacciono ancor più i suoi non-detti che lo trattengono in
una arcaica visione della verità, probabilmente anche qui per il timore di scivolare
in una verità autoricorsiva, che forse sospetta capace di persuadere solo chi è
già persuaso. Non è certamente questo il luogo per affrontare la teoria della “verità
oggettiva”, ma certo la risposta data da Gesù alla domanda sulla verità: «Io
sono la via, la verità e la vita» (Gv 14, 6) è di una grande modernità epistemologica e si pone
fuori della tesi della “verità come corrispondenza”, essendo una riposta che
potrebbe suonare anche come: «Se non lo sai perché lo domandi?». Se la
rivolgessimo a lui, il successore di Pietro come risponderebbe?
A 50anni dal Concilio Vaticano II, che avrebbe dovuto rinnovare le relazioni
tra il mondo moderno e la Chiesa, sono interessanti i dati che emergono
dall’inchiesta pubblicata recentemente dal quotidiano La Croix (11 10 12) su Les
Français et le catholicisme 50 ans après Vatican II, dati che mostrano una
progressiva diminuzione della pratica religiosa e un crescente distacco
dall’istituzione ecclesiastica. Un solo valore: il numero di battezzati che segue
la messa tutte le domeniche (nonostante la riforma liturgica) è in media del 6%
e solo dell’1% nella fascia d’età 25-34.
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