Quando Mosè giunse al termine della
sua lunga vita, il Signore gli
mostrò tutto il territorio della promessa: «Gàlaad fino a Dan, tutto Nèftali,
il paese di Efraim e di Manàsse, tutto il paese di Giuda fino al Mar
Mediterraneo e il Negheb, il distretto della valle di Gerico, città delle
palme, fino a Zoar. Il Signore gli disse: “Questo è il paese per il quale io ho
giurato ad Abramo, a Isacco e a Giacobbe: Io lo darò alla tua discendenza. Te
l’ho fatto vedere con i tuoi occhi, ma tu non vi entrerai!”.
Mosè, servo del
Signore, morì in quel luogo, nel paese di Moab, secondo l’ordine del Signore.
Fu sepolto nella valle, nel paese di Moab, di fronte a Bet-Peor; nessuno fino
ad oggi ha saputo dove sia la sua tomba. Mosè aveva centoventi anni quando
morì; gli occhi non gli si erano spenti e il vigore non gli era venuto meno» (Dt 34, 1-7).
Fin qui la Torah, ma la tradizione ci dice che Mosè non voleva morire
e, “per sapere qualcosa di più” sulle circostanze della fine della sua vita
terrena, possiamo leggere un Midrash in cui, con grande dolcezza e con grande
rispetto, si narra che «si udì una voce dal cielo
che disse a Mosè: “Mosè, è la fine, il tempo della tua morte è venuto”. Mosè
disse a Dio: “Ti supplico, non mi
abbandonare nelle mani dell’angelo della morte”». Mosè non desiderava
morire e, soprattutto, non voleva rinunciare a entrare nella Terra. Si mise quindi
a cercar di ottenere l’intercessione di tutte le creature (terra, cielo, mare e
monti, sole, luna e stelle) per ottenere misericordia, ma Dio si mostrava
inflessibile: «Scese dall’alto dei cieli per prendere l’anima di Mosè e gli
disse: “Mosè, chiudi gli occhi” e Mosè li chiuse; poi disse: “Posa le mani sul
petto” e Mosè così fece; poi disse: “Adesso accosta i piedi” e Mosè li
accostò». Il profeta cede, infine, alla volontà del Signore, ma ora è la sua
anima che resiste ad abbandonare quel corpo in cui era stata per 120 anni. «Allora il Santo, benedetto Egli
sia, chiamò l’anima di Mosè: “Figlia, le disse, per centoventi anni ti ho
raccolta nel corpo di Mosè, ora è giunto il tuo ultimo termine e devi uscire.
Esci, non indugiare”.
E l’anima: “Signore del mondo! Io so che Tu sei il Dio
di tutti gli spiriti, il Signore di tutte le anime. Tu m’hai creato, Tu m’hai
lasciato nel corpo di Mosè per centoventi anni. Ma esiste ora al mondo un corpo
più puro di quello di Mosè? Io gli voglio bene e non voglio abbandonarlo!”.
“Esci,
- replicò il Santo, benedetto Egli sia, - e Io ti farò salire ai cieli più alti
e porrò la tua sede sotto il Trono della mia Maestà, accanto ai Cherubini e ai
Serafini.
In quell’istante il Santo, benedetto Egli sia, baciò Mosè e gli
raccolse l’anima in un bacio».
Tra
le tante considerazioni che questo racconto sollecita, su due almeno mi vorrei
soffermare.
La
prima, riguarda la effettiva fine di Mosè, il momento in cui la sua anima si
separa dal corpo. Innanzitutto, le traduzioni correnti del versetto 34, 5 riportano «secondo l’ordine del Signore»,
interpretando il testo ebraico «sulla bocca del Signore» (v. tr. fr. di André Chouraqui) come se dicesse «per bocca», cioè per ordine del Signore. Il Midrash,
invece, esplicita questa scena con una rappresentazione di grande tenerezza,
in cui vediamo Dio che si piega proprio sulla bocca di Mosè prendendo la sua anima mediante un bacio sulla bocca. Il bacio
raccoglie il respiro, in questo caso l’ultimo respiro di Mosè, e per quel
legame misterioso e primordiale tra l’anima spirituale e il respiro materiale,
l’anima dolcemente esce, lasciandosi persuadere da quel gesto d’amore col quale
Dio si avvicina, bacia la bocca e unisce così quell’anima a Sé. Il bacio ci si
rivela qui in tutta la sua sacralità: sentire il respiro, prendere il respiro
dell’altro dalla sua bocca è mettere a contatto le anime, un atto di profonda
intimità non solo corporea, ma soprattutto spirituale.
La
seconda osservazione si riferisce a quello che ci appare come un atteggiamento
di durezza e quasi di crudeltà di Dio nei confronti di Mosè, al quale Egli mostra
la Terra promessa e contemporaneamente dice: «Ma tu non vi entrerai!» Una beffa? Un gesto spietato? Come
interpretare questa “punizione” di un uomo santo come Mosè che, “giustamente”
chiede a Dio di farlo morire più tardi, dandogli tempo per passare in quel
territorio? Ci si è interrogati su questo episodio e viene citata la
riflessione che Kafka gli ha dedicato nel suo diario, scrivendo che questo
vedere la Terra promessa e non poterla raggiungere «ha un unico senso, quello
di rappresentare fino a qual punto la vita umana sia un istante imperfetto:
imperfetto perché questa specie di vita (l’attesa della Terra promessa)
potrebbe durare indefinitamente senza che ne risultasse mai qualcosa di diverso
da un istante. Mosè non raggiunse Canaan non perché la sua vita fu troppo
breve, ma perché era la vita di un uomo». Per Bataille non si tratta «della
vanità di un determinato bene, ma di tutti gli scopi, ugualmente vuoti di significato:
uno scopo è, sempre, senza speranza, nel tempo — come un pesce è nell’acqua —
un punto qualunque nel moto dell’universo: poiché si tratta di una vita umana».
Non si
tratta, dunque, di un caso speciale, sfortunato e crudele, ma della rappresentazione della vita umana nella sua
generalità. In termini buddhisti, si viene messi a
confronto con i “segni” caratteristici dell’esistenza: mancanza di esistenza
inerente (e quindi dipendenza da altro), impermanenza, dolore. La saggezza
ebraica aveva espresso questo stesso sentire con le parole che troviamo nei
detti dei Padri: «Non
spetta a te concludere l’opera, ma nemmeno esimerti dall’iniziarla».
Incompiutezza come carattere dell’opera e della vita dell’uomo, i cui progetti
e sogni non si avverano mai, ma sono tuttavia da portare avanti nel loro
quotidiano e limitato procedere giorno per giorno, come nel lavoro del Sisifo
felice di Camus.
Hanno alimentato queste riflessioni le parole di
Benedetto Carucci Viterbi in un seminario universitario, quelle di Paolo De
Benedetti in una puntata della trasmissione radiofonica Uomini e profeti, quelle di Gianna Pirella in uno scritto su Kafka.
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