Andando a questa raccolta, possiamo trovare un breve scritto di Tertulliano (Quintus Septimus Florens Tertullianus, 150-220 d. C.) dedicato alla pazienza (De Patientia), della quale egli indica proprietà e pregi, «tanto inseparabile dalle cose di Dio [Dei rebus] che senza la pazienza non è possibile compiere alcun precetto né fare alcuna opera che sia gradita al Signore». Dio è, anzi, Lui stesso, il più perfetto modello di pazienza, cosa che ci deve impegnare a divenire pazienti come Lui (Tema ripreso da Benedetto XVI in una omelia del 2005, su cui v. post del 14 novembre 2008 in questo Blog). La pazienza è madre della misericordia e Tertulliano mostra come tante iniquità e tanti peccati vengano proprio dalla fretta, ossia dall’impazienza, e ricordo come il mio professore di Filosofia del Liceo appricava questo criterio anche alla verità, dicendoci: «L’errore viene dalla fretta di concludere».
In una prospettiva di ottica retributiva e utilitaristica, Tertulliano cerca di persuaderci dei vantaggi della pratica di questa virtù, gradita a Dio, e della convenienza di rinunciare ai beni terreni in vista di ben più ricchi beni celesti, considerando che sarà Dio a vendicare al posto nostro le offese, le cattiverie, le insolenze che ci vengono inferte. Parimenti, di fronte a disgrazie, malattie, morte delle persone care bisognerà, come Giobbe, pazientare per lasciar operare il Signore: Lui guarirà, ristabilirà, resusciterà… E di fronte alla amarezze della vita c’è, invece, la dolcezza dell’essere pazienti: gli insulti lanciati «contro un’anima paziente non produrranno altri effetti che quelli di una freccia lanciata contro una roccia impenetrabile; sarà un colpo perso: la freccia cadrà a terra o sarà qualche volta rinviata contro chi l’ha lanciata». Non solo non ne saremo toccati, ma potremo anche avere il sottile piacere di vedere frustrata la speranza di chi offende, osservando tornare a lui il dolore che pretendeva causarci. Tertulliano parla anche di una pazienza del corpo, perché se lo spirito è pronto e la carne è debole, è proprio la pazienza che può rinforzarlo, e distingue poi, polemicamente, «haec patientia ratio, haec disciplina, haec opera celestis et vera, scilicet Christiana» dalla pazienza falsa e terrena dei gentili, parente di viltà o maschera di bassi interessi.
Vengono poi forniti quasi dei suggerimenti per una iconografia di questa virtù: la pazienza ha un volto dolce e pacifico, la fronte è serena, nessuna collera che la contragga, nessuna nube che la veli; sopraccigli sempre ridenti, occhi sempre abbassati non per vergogna ma per modestia; il sigillo del silenzio riposa sulla sua bocca; il colore del viso è quello dell’innocenza e della sicurezza; agita sovente la testa per scacciare il diavolo e se ride è per insultare questo tentatore. Il vestito che le copre il petto è candido e di così giusta misura che né rigonfia né ha macchie. Siede sul trono dello spirito di dolcezza e mansuetudine, nessun turbamento l’agita né alcuna nube oscura, ma al contrario si mostra nella sua tenera serenità, sempre luminosa e semplice. «Nam ubi Deus, ibidem et alumna ejus, patientia scilicet: cum ergo spiritus Dei descendit, individua patientia comitatur eum».
Due considerazioni, mi sembra possiamo trarne: la prima, psicologica, sugli effetti negativi dell’impaziena e della fretta («ogni peccato ha la sua origine nell’impazienza; il male non è che l’impazienza del bene», una febbre che spinge anzitempo all’azione); la seconda, filosofica, sulle differenze tra etica autonoma ed etiche eterodirette, basate cioè su comandamenti esterni come quelli divini.