A differenza dai tradizionali Requiem legati alla liturgia cattolica, il Requiem tedesco di Brahms illustra alcuni versetti della Bibbia tedesca con l’intento di superare sensi di colpa e minacce di punizione, e con un fine consolatorio: la vita e la morte, il dolore e la rassegnazione sono uniti in questa meditazione sulla morte. L’essenza della consolazione risiede nella negazione della morte come annientamento («Suonerà infatti la tromba e i morti risorgeranno incorrotti e noi saremo trasformati», la morte ha perso il suo «pungiglione» ed è stata «ingoiata per la vittoria», 1 Cor, 15, 52-55) e nella rassicurazione che la pace sarà finalmente raggiunta da tutti “gli uomini di buona volontà”, come ci dice l’ultimo episodio, in una conclusione di dolcezza serena e sommessa, certa nella fede di un riposo felice, secondo le parole dettate a Giovanni : «Beati d’ora in poi i morti che muoiono nel Signore» (Ap 14, 13).
Questa grandiosa elegia è costruita, secondo un’architettura perfetta, in 7 parti, con coppie corrispondenti, dai caratteri musicali ed espressivi comuni: 3 e 5 (per voce solista e coro, rispettivamente: 3, baritono e coro; 5, soprano e coro), 2 e 6, 1 e 7. Nei primi tre episodi si esprime la tristezza per la caducità di tutte le cose, ma a essi fa riscontro la speranza nella beatitudine della vita futura degli ultimi tre, mentre il 4 (inno di lode del Salmo 83) è considerato una sorta di baricentro di tutta l’opera.
Nelle consolazioni ordinarie è, a mio avviso, presente una più o meno grande, più o meno intenzionale, contraffazione della realtà, senza la quale il meccanismo non sta in piedi, mentre a chi rifugge dalla bugia (e dal triste corteo di figure che l’accompagna) non resta che la consapevolezza tragica della contingenza e della finitezza, forse ancora una consolazione, anche se di una diversa e più sottile natura. Questo Requiem può così raggiungere anche noi, che vediamo improbabile il “risorgere incorrotti”, ma sentiamo la gioia e la gratitudine delle rivelazioni che ci sono date, qui e ora, nelle intermittenze del cuore e nella fragilità della vita: come quelle che ci vengono offerte dalla «lunga e intima confessione di un genio dal cuore ferito» (P. Isotta).
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