lunedì 25 gennaio 2010

Boldini e gli italiani a Parigi

Il Dart Chiostro del Bramante (Roma) ha allestito una mostra dedicata a Giovanni Boldini e agli artisti italiani che soggiornarono a Parigi nella seconda metà dell’Ottocento e nel primo Novecento, periodo in cui la città era un vero laboratorio letterario e artistico.

È presente una galleria di personaggi, di donne soprattutto, studiate e accarezzate con attenzione «a quel transitorio che per la donna è la moda di un abito, l’acconciatura di un cappello», osservato per «estrarne un’immagine sintetica e folgorante, in grado di competere con quelle create dai grandi della storia dell’arte» (Rossella Campana).

In quegli anni Beaudelaire aveva scritto: «Quale poeta mai, nel ritrarre il piacere prodotto dall’apparizione di una bellezza, oserebbe disgiungere la donna dal suo abito? E qual è poi l’uomo che per la strada, a teatro, al parco, non abbia goduto, nella forma più disinteressata, di una toeletta sapientemente composta, e non ne abbia attinto un’immagine inseparabile dalla bellezza di colei a cui apparteneva, così facendo delle due entità, della donna e della veste, un tutto indivisibile?» (Il pittore della vita moderna)

G. Boldini, La divina in blu e V. Corcos, Signora sul lungo Senna

domenica 17 gennaio 2010

Sul male

Il problema del cambiamento delle mentalità e degli assetti sociali è tema centrale nelle scienze dell’uomo: che la società cambi nel corso del tempo è una ovvietà, ma quali fattori (endogeni, esogeni?) lo determinino, di quale entità, che tipo di resistenze si incontrino, come siano misurabili i cambiamenti sono quesiti di non facili né univoche risposte. Hanno provato, tanto per citare qualche nome, Comte, Spencer, Marx ed Engels, Weber... Più vicina a noi ricordo l’affascinante analisi fatta da J. Jaynes (Il crollo della mente bicamerale e l’origine della coscienza). Ebbene, di fronte a fatti sconvolgenti come quello di Haiti, è giusto tornare sulle riflessioni già suscitate dal terremoto in Abruzzo (v. in questo blog il post 8 apr. 2009). Come ricordavo, il grande terremoto di Lisbona del 1755 scosse non solo la terra, ma anche le coscienze, facendo vacillare l’ottimismo leibniziano sul migliore dei mondi possibili. Ancor più di fronte a questo evento (che l’Onu ha definito il «peggiore disastro mai affrontato» nella sua storia) sentiamo ormai improponibile ogni discorso di teodicea che voglia mettere la divinità al riparo dalla nostra indignazione, dallo sdegno che Stendhal aveva espresso con la famosa frase «La seule excuse de Dieu c’est qu’il n’existe pas [Dio ha la sola scusa di non esistere]» (frase della quale Nietzsche diceva: «Che sia io stesso invidioso di Stendhal? Mi ha portato via la più bella battuta da ateo, che avrei potuto dire proprio io»). Se l’idea che il peccato sia l’origine di tutti i mali del mondo non regge più, anche chi è lontano dal Dio creatore, buono e onnipotente, non può, al fine di sottrarre “colpe” e “responsabilità” alla Legge (Dharma) che struttura e governa il reale, attribuire all’uomo e ai suoi “attaccamenti” l’origine del male e del dolore («Qual è, amici, la nobile verità dell’origine del dolore? La brama, che porta ad un’ulteriore esistenza, accompagnata da piacere e attaccamento, che si diletta di questa o quella cosa, ovvero la brama dei piaceri sensuali, dell’esistenza e dell’annichilimento»): avremmo, analogamente a quanto è accaduto nella tradizione giudaico-cristiana, una forma di teodicea, in questo caso “ateo-dicea”, concezione che non risolve ma soltanto sposta il problema dell’origine della sofferenza. Qualcuno potrebbe avere la sfrontatezza di dire ai superstiti di Haiti, uno dei Paesi più desolati del mondo, che il dolore viene dall’attaccamento? Se questo tipo di analisi della sofferenza si riduce, invece, soltanto a un invito all’equilibrio e alla misura, ben venga e trovi ormai il suo posto nelle scienze umane, nella psicoterapia e, ci augureremmo, nella politica. Ma una cospicua parte dell’umanità (almeno dell’Occidente) è ormai matura per compiere, collettivamente, un grande passo avanti spirituale e affrontare il problema del male in tutta la sua tragicità, abbandonando i venditori di illusioni e assumendosi la responsabilità di creare umilmente, con le proprie mani, quel tanto (o quel poco) di bene, di vero e di bello di cui saprà dimostrarsi capace.

venerdì 15 gennaio 2010

Cosa viene prima?

L’interrogativo ha i suoi anni e in filosofia ha il nome pomposo di “cominciamento” (débout, beginning...), sul quale anche Hegel si era soffermato vedendone l’aspetto relativo: ciò che, per un verso, è inizio, può considerarsi risultato, da un altro. Poiché non ha risposta, il micidiale interrogativo si ripropone continuamente e compare in tante vesti, a delizia degli insonni: in teologia (prima la fede o la ragione?), nell’opera lirica (prima le parole o la musica?), in pedagogia (educare gli adulti o i bambini), in biologia (prima l’uovo o la gallina?)... Oggi, da questo furgone mi assale ancora: bufala o (via della) Bufalotta?

(foto RV)

mercoledì 13 gennaio 2010

Vedere e ri-vedere Hiroshima mon amour

Il film (sceneggiatura di M. Duras, regìa di A. Resnais, 1958) narra di un’attrice francese e un ingegnere giapponese, due «esseri geograficamente, storicamente, razzialmente, etc. lontani quanto più si può essere», sullo sfondo di una città «(forse la sola al mondo?) dove i dati universali dell’erotismo, dell’amore e del disagio appariranno sotto una luce implacabile» (M. Duras), che “si incontrano” a Hiroshima, la città del dolore più osceno (fuori scena, non tematizzabile), dove nulla è dato e banale, e tutto riceve un supplemento di senso («un alone particolare circonda ogni gesto, ogni parola»).

È un’occasione di confronto con le dicotomie senza mediazione e i loro esiti insolubili. Qui è il rapporto tra la vita e la morte, nella storia; tra ciò che è vivo e ciò che è morto, nell’esperienza.

Hiroshima mon amour parla di memoria e di racconto.

Cos’è la memoria, cos’è che trasforma la traccia in ricordo, il fragile ponte sul fiume del tempo che divide l’esperienza di oggi da quella di ieri?

Cos’è il racconto, che trasfigura e sfigura, purifica, assottiglia, dona senso, trasformando l’evento in destino?

E la comunicazione, il ponte sui crepacci di solitudine che distanziano i vissuti individuali, miracolo impossibile e anche peccato crudele, attentato alla preziosità del nostro segreto…?

È possibile ricordare, è possibile narrare Hiroshima, città di distruzione e di condanna, di morte e di eccessi? Si possono narrare i due personaggi che si incontrano, si inseguono, si bordeggiano, si perdono? Nella loro raggelante impotenza si chiamano, alla fine, coi nomi delle sofferenze di cui sono prigionieri; si diranno: «Il tuo nome è Hiroshima» e «Il tuo è Never-en-France». Come dire che i diversi “ponti” che abbiamo intravisto hanno forse una sola possibilità di esistere, quella offerta dalla comune cognizione del dolore.

martedì 12 gennaio 2010

Modi di dire#3/spiegare

Spiegare (dal lat. ex- e plicare, piegare) ovvero distendere, svolgere quel che è piegato, involto, avvolto. Per cui, si spiegano le vele, le lenzuola, le tovaglie, le ali, le bandiere... Si canta a voce spiegata (quando si canta a squarciagola, forse ricordando le Sirene — anche se quelle dovevano essere più melodiose — se diciamo “a sirene spiegate”)... Di qui, metaforicamente, il significato di rendere chiaro, piano, comprensibile un testo, un ragionamento, un evento... togliendone le pieghe, che ne oscuravano qualche parte. In forma riflessiva si dice “mi spiego” o mi “sono spiegato?” e quando le persone si confrontano diciamo, con sollievo, che “si sono spiegate”.

mercoledì 6 gennaio 2010

Beniamino Placido

Benimino se ne è andato questa mattina, lontano da Roma e anche da tanti amici per la lunga malattia che lo aveva colpito anni fa. Il ricordo va ad anni remoti, quando frequentavamo la stessa Università e mi dava da leggere in anteprima, e discutevamo, la sua tesi di laurea su Moravia come autore moralistico. Poi le nostre “strane” parentesi lavorative (lui alla Camera dei deputati, io alla Rai), lasciate le quali avremmo poi trovato strade più “nostre”. E, via via, i matrimoni, il Sessantotto, le telefonate "ho fatto un sogno..." e quando mi voleva far arrabbiare dicendo “i giapponesi non sono diversi”... Sincronicità: proprio oggi, facendo ordine, mi compariva una foto... Ciò che mi rimane molto presente è l’aroma del suo garbo, intellettuale e comportamentale, come lo avesse quasi costruito e alimentato nel corso degli anni con buonagrazia, cultura, urbanità. Avrebbe considerato eccessivo un addio, meglio un più sommesso ciao...

lunedì 4 gennaio 2010

Camus, l'estraneo

Il 4 gennaio di cinquant’anni fa moriva, in un tragico incidente, Albert Camus. Ricordiamolo rileggendo un passo del discorso tenuto in occasione del conferimento del Premio Nobel (1957).

..."Nello stesso tempo, avrei proclamato la nobiltà del mestiere di scrivere, avrei ricollocato lo scrittore al suo vero posto, non godendo lui di altri titoli all’infuori di quelli che divide con i suoi compagni di lotta, vulnerabile ma ostinato, ingiusto e appassionato di giustizia, costruttore della sua opera senza vergogna né orgoglio al cospetto di tutti, diviso sempre fra il dolore e la bellezza; votato infine a trarre dalla sua duplice esistenza le creazioni che ostinatamente tenta di edificare in mezzo al moto distruttore della storia. Chi, dopo tutto ciò, potrebbe attendere da lui soluzioni bell’e fatte e belle morali? La verità è misteriosa, sfuggente, sempre da conquistare. La libertà è pericolosa, dura da vivere quanto esaltante. Dobbiamo marciare verso questi due obiettivi, con fatica ma decisi, ben consci dei nostri errori in un così lungo cammino"...

Sacrificium

In ossequio alla regola dettata da san Paolo (I Cor. 14, 34), che non consentiva alle donne di parlare nelle assemblee, divenuta poi divieto anche di apprendere la musica e di farsi impiegare come cantanti (Clemente IX), le voci femminili si trovarono bandite dalla musica sacra e anche dai teatri romani per alcuni secoli. Di qui l’impiego, per le voci di soprano, dei ragazzi castrati prima della “muta” della voce e avviati allo studio della musica e del cantos. L’Italia e Napoli, in particolare, furono i luoghi di “produzione” di questi martiri. Nel periodo in cui fioriva la scuola del grande maestro Antonio Porpora (1686-1768), che ebbe come allievi i più celebri tra gli evirati cantori: Farinelli, Caffarelli, Salimbeni, Appiani, Porporino, nella sola Napoli ne venivano “prodotti” varie migliaia all’anno, spinte le famiglie indigenti dal desiderio di alleggerirsi del peso di un figlio e dalla speranza di ricchi profitti. Se il ragazzo “riusciva”, gli si apriva una vita di successi e di ricchezze, ma a tutti gli altri restava una vita grama e la via della prostituzione. Il tutto mentre la pratica era formalmente proibita, da cui i dispositivi di menzogna, che mascheravano come accidentale (cadute, morsi di animali, errori medici, etc.) ciò che era intenzionale.

Nei confronti di questo canto perduto si è prodotto, nel tempo, un duplice orientamento, a seconda che la voce dei “castrati” sia stata considerata ineguagliabile o, viceversa, solo un insoddisfacente rimpiazzo della voce femminile. La nostalgia di quelle voci che possiamo solo a fatica immaginare (le uniche registrazioni risalgono agli inizi del Novecento, quando l’ultimo “castrato” della Sistina, Alessandro Moreschi, 1856-1922, era ormai avanti con gli anni e le tecniche di registrazione poco evolute) ha fatto sì che vari tenori falsettisti o mezzosoprani-contralti si siano prodotti nel repertorio del barocco, come Aris Christofellis e Philippe Jaroussky o Nella Anfuso e Vivica Genaux. Da ultima, ha affrontato questa sfida Cecilia Bartoli, al sommo della sua carriera, con un risultato inguagliabile (disco dal tit. Sacrificium). Dice ella stessa, in proposito: “Sicuramente è stato un sacrificio affrontare questo repertorio! Una grande sfida per una donna. I castrati avevano voci femminili ma potenti, perché erano pur sempre uomini, con una capacità polmonare e un controllo del fiato assai più estesi. Farinelli cantava venticinque battute senza respirare. I castrati passavano da registri bassi a registri alti facendo salti di quindici note, veri fuochi d'artificio vocali. Insomma, ci ho messo vent'anni a prepararmi tecnicamente per questo disco, che per 80 minuti presenta un repertorio mai inciso prima. E in più, cantando questi pezzi, ho vendicato le povere donne ammutolite dalla Chiesa, alle quali fu rubata all'epoca questa musica”.

Sacricium, nella “Edition de luxe” (pubbl. dalla Decca), ha i due CD accompagnati da un album di 100 pag., con un Compendiun (in ingl., fr., ted.) storico su figure, luoghi e tecniche (musicali e... chirurgiche): irresistibile!

Per gli interessati, segnalo, oltre ai dischi dei cantanti citati, i vol. Storia del belcanto, di R. Celletti, e Gli evirati cantori, di P. Barbier, nonché il film Farinelli, il Castrato, di Gérard Corbiau, con CD (Auvidis) della colonna sonora.

sabato 2 gennaio 2010

Cariatidi#17/Roma


Palazzo dell'Hôtel Excelsior (1905-1908), in via Veneto, dell'arch. Otto Maraini
(foto RV)