I nostri media ritengo non abbiano dato il giusto rilievo all’importante discorso A Just and Lasting Peace pronunciato dal presidente Obama in occasione del conferimento del Premio Nobel. Riporto qui una parte del testo in inglese (dal sito nobelprize.org) e, per chi desiderasse una versione italiana, non risultandomi una traduzione ufficiale, i passi corrispondenti secondo una traduzione presente nel web (squeezermag). Anche questo un segno che mi fa ritenere che il discorso non sia stato di alto gradimento per molto del nostrano soi-disant pacifismo...
«We must begin by acknowledging the hard truth that we will not eradicate violent conflict in our lifetimes. There will be times when nations – acting individually or in concert – will find the use of force not only necessary but morally justified.
I make this statement mindful of what Martin Luther King said in this same ceremony years ago – "Violence never brings permanent peace. It solves no social problem: it merely creates new and more complicated ones." As someone who stands here as a direct consequence of Dr. King's life's work, I am living testimony to the moral force of non-violence. I know there is nothing weak –nothing passive – nothing naïve – in the creed and lives of Gandhi and King.
But as a head of state sworn to protect and defend my nation, I cannot be guided by their examples alone. I face the world as it is, and cannot stand idle in the face of threats to the American people. For make no mistake: evil does exist in the world. A non-violent movement could not have halted Hitler's armies. Negotiations cannot convince al Qaeda's leaders to lay down their arms. To say that force is sometimes necessary is not a call to cynicism – it is a recognition of history; the imperfections of man and the limits of reason.
I raise this point because in many countries there is a deep ambivalence about military action today, no matter the cause. At times, this is joined by a reflexive suspicion of America, the world's sole military superpower.
Yet the world must remember that it was not simply international institutions – not just treaties and declarations – that brought stability to a post-World War II world. Whatever mistakes we have made, the plain fact is this: the United States of America has helped underwrite global security for more than six decades with the blood of our citizens and the strength of our arms. The service and sacrifice of our men and women in uniform has promoted peace and prosperity from Germany to Korea, and enabled democracy to take hold in places like the Balkans. We have borne this burden not because we seek to impose our will. We have done so out of enlightened self-interest – because we seek a better future for our children and grandchildren, and we believe that their lives will be better if other peoples’ children and grandchildren can live in freedom and prosperity.
So yes, the instruments of war do have a role to play in preserving the peace. And yet this truth must coexist with another – that no matter how justified, war promises human tragedy. The soldier's courage and sacrifice is full of glory, expressing devotion to country, to cause and to comrades in arms. But war itself is never glorious, and we must never trumpet it as such.
So part of our challenge is reconciling these two seemingly irreconcilable truths – that war is sometimes necessary, and war is at some level an expression of human feelings. Concretely, we must direct our effort to the task that President Kennedy called for long ago. “Let us focus”, he said, “on a more practical, more attainable peace, based not on a sudden revolution in human nature but on a gradual evolution in human institutions.”... Those who seek peace cannot stand idly by as nations arm themselves for nuclear war.
The same principle applies to those who violate international law by brutalizing their own people. When there is genocide in Darfur; systematic rape in Congo; or repression in Burma – there must be consequences. And the closer we stand together, the less likely we will be faced with the choice between armed intervention and complicity in oppression».
«Dobbiamo iniziare riconoscendo che l’amara verità è che non riusciremo a estinguere i conflitti violenti nell’arco delle nostre vite. Ci saranno epoche nelle quali le nazioni — agendo individualmente o in concerto tra loro — scopriranno che il ricorso alla forza è non soltanto necessario, ma anche moralmente giustificato.
Sono qui a fare queste dichiarazioni memore di quello che disse Martin Luther King in questa stessa occasione alcuni anni fa: “La violenza non porterà mai a una pace permanente. Essa non risolve alcun problema sociale, ma ne crea di nuovi e di sempre più complicati”. Trovandomi qui nelle vesti di chi incarna il lavoro stesso di King durato tutta una vita, sono un testimone vivente della forza morale della non-violenza. So che non c’è nulla di debole, nulla di passivo, nulla di ingenuo in ciò che Gandhi e King hanno creduto, vissuto e professato. Come capo di Stato, però, ho giurato di proteggere e difendere la mia nazione e non posso essere ispirato soltanto dai loro esempi. Guardo al mondo, così come esso è e non posso restare a guardare senza fare nulla contro le minacce che incombono sul popolo americano. Voglio essere chiaro, non fraintendetemi: nel mondo il male esiste. Un movimento non-violento non avrebbe potuto fermare gli eserciti di Hitler. I negoziati non avrebbero convinto i leader di al Qaeda a deporre le loro armi. Affermare che il ricorso alla forza talora è necessario non significa esortare al cinismo, ma prendere atto della Storia, delle carenze dell’essere umano e dei limiti della ragione.
Parlo di ciò perché in molti Paesi vi è una profonda ambiguità su quale debba essere l’azione militare ideale della nostra epoca, a prescindere dalle cause. Talvolta a tutto ciò si sommano sospetti sull’America, l’unica grande superpotenza al mondo. Il mondo, però, dovrebbe ricordare che non furono soltanto le istituzioni internazionali, i trattati e le dichiarazioni a portare stabilità nel mondo del secondo dopoguerra. A prescindere dagli errori che possono aver commesso, è indiscutibile che gli Stati Uniti d’America hanno contribuito a garantire la sicurezza globale per oltre sessant’anni con il sangue dei loro cittadini e la forza delle loro armi. Il servizio e il sacrificio degli uomini e delle donne che indossano l’uniforme militare americana hanno favorito la pace e la prosperità, dalla Germania alla Corea, e hanno reso possibile che la democrazia mettesse radici in luoghi come i Balcani. Ci siamo fatti carico di questo fardello non soltanto perché cercavamo di imporre le nostre volontà: lo abbiamo fatto anche per un illuminato interesse, perché vogliamo un futuro migliore per i nostri figli e i nostri nipoti e perché crediamo che le loro vite saranno migliori se i figli e i nipoti degli altri popoli potranno vivere anch’essi in libertà e prosperità.
Ebbene sì, dunque: gli strumenti della guerra rivestono la loro importanza nel mantenimento della pace. Ebbene sì: questa verità deve convivere con un’altra: indipendentemente dalle cause e dalle giustificazioni più o meno legittime, la guerra riserva tragedie per gli esseri umani. Il coraggio e il sacrificio di un soldato sono ammantati di gloria, esprimono devozione alla sua patria, alla causa e ai commilitoni, ma la guerra di per sé non è mai gloriosa, né dovremmo cedere alla tentazione di interpretarla così.
Parte delle nostre sfide odierne consiste dunque nel cercare di riconciliare queste due verità apparentemente così irriconciliabili: la guerra è talvolta necessaria ed è in una certa qual misura un’espressione dei sentimenti umani. Concretamente, dobbiamo dirigere i nostri sforzi verso quell’impegno che il presidente Kennedy delineò tempo fa: “Cerchiamo di focalizzarci su una pace più pratica e più raggiungibile, che si basi non tanto su una repentina trasformazione radicale della natura umana, bensì su una graduale evoluzione delle istituzioni umane”.
... Coloro che perseguono la pace non possono restarsene inerti e con le mani in mano mentre le nazioni si armano per una guerra nucleare.
Lo stesso principio si deve applicare a coloro che violano le leggi internazionali maltrattando brutalmente le loro stesse popolazioni. Se in Darfur vi è un genocidio, se in Congo vi sono stupri sistematici, se in Birmania vi sono repressioni, vi devono essere conseguenze precise. Quanto più uniti saremo, tanto meno probabilmente dovremo essere costretti a scegliere tra un intervento armato e diventare complici nell’oppressione».
Il discorso di Obama mi è sembrato un utile stimolo per riflettere sul tema della non-violenza e della compassione secondo l’insegnamento buddhista. Vorrei a tal fine, si parva licet componere magnis, ricordare quanto, nel convegno Dieu entre la paix et le guerre (promosso dall’Ambassade de France près le Saint-Siège), avevo esposto alla luce della dottrina buddhista dei “dieci mondi”, che permette di distinguere le situazioni a seconda del contesto. Anche in quel caso, l’intervento non piacque ad alcuni sostenitori della assoluta e unilaterale non-violenza, refrattari a comprendere il significato dell’assunzione di responsabilità da parte di chi non vuole diventare complice di genocidi, violenze e oppressioni. Dicevo allora:
«...Il mondo è già salvo dal punto di vista della sapienza buddhica[1], mentre, dal punto di vista della compassione, essendo pieno di esseri che gemono tra miserie di ogni genere, è perennemente nella condizione di dover essere salvato. Il Buddha, per questo, è spinto, dalla logica dell’amore, a rivelare il Dharma agli uomini, privi di saggezza e pieni di attaccamenti, e i bodhisattva concretamente agiscono per alleviare il dolore, trasformare i conflitti e difendere i più deboli, non potendo tollerare le violenze e le ingiustizie da questi subite. Ebbene, quando, nei mondi di sofferenza, da una delle parti vengano intraprese azioni violente nel rifiuto di ogni confronto, appare indubbia l’opportunità, nei modi più adeguati, di un’azione che possa ristabilire equilibrio e armonia. Se poi la parola è addirittura alle armi si pone il problema della necessità di interventi che realizzino una interposizione idonea a fermare gli scontri cruenti, nel rispetto dello spirito del non-odio, della non-violenza, della compassione. Chi, in che modo e con quale legittimità sia autorizzato a un tale tipo di intervento a fini umanitari resta un problema aperto sul quale è giusto si discuta e si soffra, e sul quale deve essere esercitata la massima trasparenza e vigilanza. In questa prospettiva, non possiamo non registrare con soddisfazione i passi avanti che la cultura della pace ha compiuto in questi anni nel superare il concetto di guerra giusta per passare a quello di ingerenza umanitaria, e dal riconoscimento del solo diritto all’autodifesa a quello del dovere dell’azione a difesa dell’aggredito. Ricordiamo quanto Giovanni Paolo II ha affermato recentemente: «Difendere chi è perseguitato, chi è attaccato, chi perde tutto, non è altro che un atto di carità. L’ingerenza umanitaria è una cosa evangelica in sé […]. Non si può restare fermi mentre il mio vicino, concittadino o non concittadino, subisce un’aggressione» (1993, dai giornali). E ancora: «Evidentemente, quando le popolazioni civili rischiano di soccombere sotto i colpi di un ingiusto aggressore e a nulla sono valsi gli sforzi della politica e gli strumenti di difesa non violenta, è legittimo e persino doveroso impegnarsi con iniziative concrete per disarmare l’aggressore” (XXXIII giornata della pace, 1 gen. 2000).
Tra gli insegnamenti presenti nella Bhagavad-Gita, libro che è tra i tesori della spiritualità umana e in cui trova espressione il fondo comune della religiosità indiana, ne troviamo uno che si riferisce alla morale del guerriero. Discutendo il rapporto tra azione e non-azione, la Bhagavad-Gita mostra come l’alternativa rappresentata dalla non-azione sia in realtà una falsa alternativa, perché la vera risposta è nello spirito che guida l’azione, nella realizzazione di un’azione disinteressata, compiuta come offerta o sacrificio fatto a Krsna, condotta cioè senza personale attaccamento al frutto dell’azione stessa. «Distaccandosi da tutte le azioni» (XII, 6) per offrirle alla divinità, il guerriero Arjuna, come anche ogni “guerriero” del quotidiano, può — secondo le parole di Krsna — rimanere puro e imperturbato: «Deponendo in me tutte le azioni, con l’animo raccolto in quella Realtà che si manifesta nel Sé, privo di speranza e di ogni idea di possesso, combatti libero dall’angoscia» (III, 30); «consacra interamente a me il tuo agire» (XII, 10); «nel pieno dominio di te stesso, abbandona il frutto di tutte le azioni» (XII, 11).
La storia della civiltà può essere letta proprio osservando le modalità delle lotte condotte per la gestione dei conflitti, per fare in modo che essi passassero e passino da livelli di antagonismo cruenti a livelli sempre meno violenti o, per esprimerci metaforicamente, passassero dall’età del ferro a quella del legno, e poi dal legno alla carta e alle… carte dei diritti. A misura che la condizione della nostra mente passa infatti da un livello all’altro, da un “mondo” all’altro, parallelamente, si trasforma anche il modo di vivere i conflitti. Nel palazzo delle Nazioni Unite, vicino alla sala del Consiglio di sicurezza, è allestita una sala di meditazione: forse, se essa venisse più spesso frequentata, porterebbe i contendenti e i negoziatori in uno stato mentale più idoneo ad affrontare i conflitti, in modo da prospettare soluzioni che siano le più comprensive e tolleranti, nell’assoluto rispetto di alcuni criteri, sui quali possiamo svolgere alcune riflessioni. Fondamentale è il criterio che impone di evitare di creare situazioni irreversibili: se infatti uno dei due contendenti viene eliminato o addirittura ucciso, la situazione diviene irrecuperabile. Invece di pensare in termini di vinti e vincitori, occorrerà sforzarsi di vedere i contendenti come due che non solo non tendano a eliminarsi reciprocamete, ma addirittura divengano capaci di utilizzare la situazione conflittuale come occasione di incontro, di emulazione e di crescita. Come esempio di intervento facilitatore di questo tipo, possiamo pensare a quello di un terapeuta che, impegnato con dinamiche familiari o di gruppi lavorativi, cerchi di abbassare il livello dei contrasti e di dare sbocchi positivi a situazioni conflittali che, abbandonate a sé stesse, incrementano le loro potenzialità paralizzanti e distruttive.
Esercitare la pazienza oltre ogni limite, perché quando una delle due parti è totalitaria e intollerante la pazienza è l’unica alternativa a una risposta violenta ed è l’unica condizione in cui si possa approfondire la conoscenza della situazione e individuare i modi opportuni per trasformare il conflitto. Abbandonata l’illusione che la non-azione sia la scelta migliore, qualora l’ingerenza umanitaria dovesse comportare l’uso della forza, l’intervento dovrà essere adeguato al livello del conflitto che si sta affrontando, esercitando una costante vigilanza per far sì che l’intervento non crei più danni di quelli che sono già in atto. I sutra (analogamente ai Vangeli) sono stati composti in tempi e in riferimento a situazioni in cui la dottrina era indirizzata a individui desiderosi di cambiare orientamento di vita, seguendo principî che risultavano dallo stile di condotta prevalente nella società del tempo. Successivamente, si presentarono preocupazioni nuove quando si è passati dal livello dell’ascesi individuale a quello delle responsabilità politiche. Gli scritti su questi aspetti sono ovviamente meno numerosi e frutto di elaborazioni successive alla predicazione del Buddha. Tra tali scritti possiamo citare quelli sui doveri dei re (che devono conquistare il mondo con le loro virtù) e quelli sulla condotta che essi debbono tenere in caso di guerra. Lo stile di comportamentore del re Suddhodana, padre del Buddha, era tale che «l’avversario gli diveniva neutrale, la neutralità diventava alleanza, l’alleanza si consolidava in modo particolare. A chi lo avvicinava speranzoso toglieva sempre la sete con le acque dei suoi doni e senza combattere infrangeva la tronfia insolenza dei nemici con la scure della sua rettitudine” (Buddhacarita, II, 6, 40). Un sovrano che crede nel Buddha e ottempera ai suoi precetti, renderà ricco e operoso il suo Paese e «un Paese che gode di prosperità non ha necessità di attaccare un altro Paese né ha bisogno di armi per aggredire». Il buon sovrano tratta il suo popolo con la stessa sollecitudine con la quale i «genitori allevano il loro neonato, cambiando con un panno asciutto quello bagnato, prima che il bimbo pianga», per cui «dovunque si rechi cessano la battaglie e la cattiva volontà diventa nulla. Grazie al potere della Verità, governa secondo l’uguaglianza e vanificando tutti gli attacchi di ogni sorta di male, arreca agli uomini la pace. […] Poiché il suo governo si basa sulla Verità, è invincibile. Laddove il vero si estrinseca, cessa la violenza e scompaiono i cattivi intenti. Non vi sono dissensi fra i suoi sudditi, poiché vivono nella serenità e nella sicurezza. La sua sola presenza arreca pace e felicità al popolo. Ecco perché è chiamato Re della Verità. Poiché il Re della Verità è il re dei re, tutti gli altri sovrani ne lodano il nome, governano il proprio Paese seguendo il suo esempio e sotto la sua retta guida arrecano sicurezza ai propri sudditi e compiono i loro doveri seguendo il Dharma»[2]. Di fronte a un attacco ostile, il sovrano ha l’obbligo di difendere anche con le armi il proprio Paese e il suo popolo dai nemici, ma sempre conservando la mitezza e la compassione. In tal modo, anche una situazione spiacevole come quella di un conflitto armato, può divenire occasione di pratica spirituale: «Nel caso di una cospirazione sovversiva contro un buon re, o di una irruzione nel Paese di nemici stranieri, il sovrano rifletta su tre punti. Poi, deve decidere: I cospiratori o i nemici stranieri minacciano l’ordine e il benessere della nostra nazione. Devo proteggere i sudditi e il Paese anche con la forza armata. Cercherò di trovare il modo di vincerli senza far ricorso all’uso delle armi. Mirerò a catturarli vivi, a non ucciderli e, se possibile, a disarmarli. Il re rifletterà su queste tre tattiche e poi procederà con saggezza, dando le istruzioni e le disposizioni necessarie. Procedendo in tal modo, il Paese e i soldati saranno incoraggiati dalla saggezza del re, dal suo senso d’onore e lo rispetteranno. Se si rende necessario far appello ai soldati, essi capiranno in pieno i motivi della guerra. Andranno allora sul campo di battaglia con coraggio e lealtà, rispettosi della sovranità del re. Una guerra siffatta porterà non solo alla vittoria, ma accrescerà la virtù del Paese» [3].
Affermare, come insegna il buddhismo Mahayana, che il samsara coincide col Nirvana e viceversa, significa assumersi la responsabilità della storia e quindi riconoscere che siamo figli della storia e che il male e il bene sono nella storia mescolati così intimamente che non è possibile fare la storia separando l’uno dall’altro. Il simbolo del loto, fiore immacolato ma con le radici nel fango, ci ricorda l’inscindibilità di positivo e negativo, e ci costringe a riconoscere che non tutta la violenza è nella guerra e che non tutto nella guerra è violenza. Molte delle cose che consideriamo progressi civili, riconoscimento dei diritti, affermazioni di giustizia e libertà sociali vengono, purtroppo, da lotte cruente che hanno segnato la nostra storia e ci impongono di non dimenticare tutti coloro che hanno dato la loro vita per difendere e affermare gli spazi di libertà di cui godiamo. Probabilmente, noi stessi non saremmo qui se l’ultima guerra contro il nazifascismo non fosse stata combattuta o fosse stata vinta dalla Germania nazista; non potremmo esprimerci ora in spirito di tolleranza e comprensione senza il martirio dei tanti caduti per difendere la libertà di pensiero; né possiamo immaginare quale volto avrebbe quella che chiamiamo Europa cristiana senza Carlo Martello e Orlando e Carlo Magno...».
[1] Analogamente, nel Vangelo è detto del Padre celeste che «fa sorgere il sole sopra i malvagi e sopra i buoni, e fa piovere sopra i giusti e sopra gli ingiusti» (Mt 6, 44-45) o della opportunità di lasciare «che l’una [la zizzania] e l’altro [il grano] crescano insieme fino alla mietitura» (Mt 19,30).
[2] L’insegnamento del Buddha, tr. it., Tokyo, Bukkyo Dendo Kyokai, 1984, p. 234 s.
[3] Ivi, p. 238 s.
1 commento:
Complimenti. Un articolo ottimo, apporfondito, illuminante che mi ha permesso di smussare e rivedere alcune mie posizioni.
Un momento di crescita di cui devo assolutamente ringraziarla.
Con l'occasione, Auguri di Buon Natale e Felice Anno Nuovo.
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