È ormai da considerare conclusa la travagliata storia del “glorioso”
libero arbitrio o è ancora possibile individuare uno spazio, compatibile con
gli sviluppi della psicologia e delle neuroscienze, in cui il soggetto possa
riconoscere l’estrema dimora di quelle che usiamo chiamare libertà e dignità
(pur senza maiuscole)? Sembra venuto il momento di ritornare proprio alla
visione (hegeliana) della libertà come coscienza della necessità, una necessità
per la quale il soggetto, riconosciutosi parte di una realtà più grande (dio, inconscio,
mistero) possa perfino dire «Sia fatta la tua Volontà», senza tuttavia porsi in
atteggiamento di passiva sudditanza e rassegnazione, e rivendicare, quando
tutto è perduto (ma anche, in tono minore, nel quotidiano) la propria dignità
di martire davanti a un destino di sconfitta e di morte.
Scoprendo di essere stato indotto a macchiarsi di colpe “oggettive”,
in realtà solo “errori” commessi per ignoranza (=limite) e per desiderio
(=inconscio), l’autonomia del volere viene a ridimensionarsi alla possibilità
di effettuare scelte intelligenti, cioè informate dall’esperienza, e, pertanto,
più appropriate di quanto non sarebbero state se effettuate in uno stato
“precedente”. Le attuali conoscenze psicofisiologiche inducono, infatti, sempre
più a riconoscere che noi siamo, ad ogni istante, il risultato del patrimonio
genetico e della nostra storia, avendo l’evoluzione
prodotto, coi cervelli, macchine programmate per compiere scelte controllate e
modulate dalle stesse scelte compiute. Senza predisposizione genetica e senza
apprendimento non potremmo effettuare nessuna scelta né prendere alcuna
decisione perché non saremmo in alcun modo motivati a compierla, come insegnava
il famoso apologo dell’asino di Buridano, che morì di fame non avendo nessun
motivo per scegliere tra due cumuli di fieno perfettamente eguali: una volontà
che volesse essere assolutamente “libera” verrebbe a trovarsi, analogamente
alla colomba di Kant che, desiderando volare senza incontrare la resistenza
dell’aria, non potrebbe più volare in un vuoto senz’aria. Parleremo, pertanto,
di libertà di scelta o di scelta libera quando il soggetto chiamato a scegliere
si trovi esposto a una pluralità di proposte, offerte, possibilità, nel mondo
degli oggetti (prodotti di provenienza, marche, confezioni diverse), in quello
politico (partiti per storia, ideologia, personale differenti tra loro) o in
quello delle proprie attività, opinioni, impegni; a differenza da situazioni in
cui non vengano offerte opportunità molteplici (economia regolata e senza
mercato, dittature politiche, società chiuse, disagi psichici vincolanti...).
Al contrario, quando non sia possibile
operare selezioni in base alle proprie preferenze, frutto della eredità biologica e
della storia educativa diremo di essere in una situazione di limitazione o di
mancanza di libertà. Il criterio non farà più riferimento a una ipotetica e
astratta autodeterminazione, indipendente dalle leggi della natura, dai
condizionamenti sociali, dalla propria “eredità”, per cui con libertà del
volere intenderemo l’agire con la massima cognizione di causa e consapevolezza
delle radici delle nostre motivazioni, utilizzando la conoscenza della
necessità al fine della trasformazione della realtà.
Va anche aggiunto che,
per i nostalgici della vecchia concezione del libero arbitrio, non risulterebbe
proficuo il tentativo di ancorare questo al principio di indeterminazione
(formulato negli anni Venti del secolo scorso da Werner Heisemberg): infatti, l’esistenza
di un indeterminismo nel comportamento di particelle elementari in seno ai
neuroni resterebbe comunque al di fuori della “responsabilità” dell’individuo,
il quale non rafforzerebbe di certo la sua capacità di autodeterminazione se
dovesse riconoscere che le sue decisioni sono frutto del caso anziché essere
rigidamente determinate.
Se il libero
arbitrio, tradizionalmente inteso, si rivela dunque soltanto un’illusione
(Spinoza: «Coloro dunque che credono di parlare o tacere o di fare qualsiasi
cosa per libero decreto della Mente sognano ad occhi aperti», Etica, parte III, prop. II), si può,
tuttavia, riconoscere che si tratta di una illusione evolutivamente e
socialmente “utile”, in quanto, a un basso livello di consapevolezza, credere
di avere una volontà libera è condizione per impegnarsi nel controllo della
realtà, mentre il fatalismo può arrestare l’impegno (volitivi vs abulici e depressi), come, d’altra
parte, formulare regole, leggi, comandamenti migliora il nostro sentimento di
“responsabilità sociale” e costituisce il fondamento degli sforzi educativi
tesi a formare persone coscienziose e prudenti (vs persone egoiste e sconsiderate).
La consapevolezza che si opera nella tragedia a seguito di
una qualche forma di disvelamento, la presa di coscienza che si realizza nella
psicoterapia, l’insight meditativo,
la perturbazione che si provocherebbe con la comunicazione a una persona di una
ipotetica predizione “perfetta” del suo comportamento realizzata da un
osservatore assoluto (secondo l’argomentazione del matematico e informatico
Donald M. MacKay (Determinism and Free
Will, con bibl., in R. L. Gregory, Ed., The
Oxford Companion to the Mind, Oxford, Oxford Univ. Press, 1987), sono tutti
esempi di “discontinuità” nel susseguirsi degli eventi e base anche di una
possibile metafisica del finito e del limite (quella a cui Camus alludeva con
le espressioni di “rivolta” o di “Sisifo felice”), discontinuità che, non va
dimenticato, se apparirà “libera” nell’immediatezza del vissuto si rivelerà, tuttavia, anch’essa determinata nella successiva
descrizione delle scelte effettuate.
Come la fisica utilizza, per la natura della luce, sia la teoria ondulatoria
che la teoria corpuscolare, psicologia e sociologia continueranno, da un lato,
a studiare e indagare i comportamenti ricercandone le “cause”, mentre etica, politica,
psicoterapia e pedagogia, dall’altro, eserciteranno sul soggetto la loro
influenza educativa, terapeutica, “correttiva”... Molto interessante, in questa
prospettiva, è il concetto giuridico di “responsabilità oggettiva”, connesso a
una posizione o a un ruolo, e sganciato quindi da insondabili forme di coscienziosità soggettiva.
I tempi sembrano, dunque, ormai maturi perché, sgombrato il
campo da vecchie e illusorie visioni, ci si possa aprire a sperimentazioni di
tipo nuovo in ambito pedagogico, psicoterapeutico, criminologico, etc., senza
che il passaggio dalla “colpa” all’“errore” debba generare il timore
ingiustificato di avallare impunità e di rinunciare a ogni forma di protezione
sociale. Anzi, il riconoscimento dell’esigenza di giustizia come equilibrio
sociale resta una delle nostre fondamentali motivazioni e non andrà, in questo
diverso orientamento, in alcun modo trascurata, pur cambiando il significato di
quella che si potrà continuare a chiamare “pena”, ma con il nuovo significato
di opera di prevenzione e controllo sociale, rieducazione e cambiamento del
destino personale dell’individuo “responsabile”.
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