Giorni or sono, Emma Bonino ha “concesso” una
intervista a la Repubblica, dopo
l’annuncio della sua malattia fatta in diretta su Radio Radicale. Le sue dichiarazioni
sono state approvate e condivise da molti, ma — al di là dell’apprezzamento per
l’impegno della Bonino in tante battaglie “liberali” condotte negli anni
passati — debbo dire che non mi sento nel coro osannate. E non perché, come
qualcuno ha osservato, si tratta di uno dei tanti episodi di quel presenzialismo
esibizionistico che trasforma in evento qualunque accadimento riguardi qualcuno
dei Vip o della “casta”, ma per il modo in cui Lei ha parlato del suo rapporto
con la malattia che l’ha colpita. La “bestiola” la chiama lei, oppure lo
“stronzo”. Rispondendo
all’intervistatore dice: «Mi è costato pensarle [le parole], metterle in
fila una dopo l’altra, mostrare una mia fragilità intima. Io sono una
piemontese riservata anche sulle disgrazie, da sempre provo a vivere sostenendo
che il personale è politico ma credo anche che il privato non sia pubblico. Può
sembrare uno scioglilingua ma spero si capisca. Ero emozionata ... Alla fine
avere fatto quella confessione mi ha aiutata. Molti malati mi hanno scritto:
grazie, ha aiutato anche me. Avere la consapevolezza che noi non siamo il
nostro male, che siamo altro, che dobbiamo sforzarci di continuare a essere le
stesse identiche persone di prima costituisce la nostra speranza e la nostra
fede laica. So che mi devo occupare di questo stronzo e basta. Io o lui,
vedremo chi la spunta».
Quanta volgarità, rabbia, arroganza in queste parole! «La
speranza e la nostra fede laica» consisterebbe in una rimozione, un
allontanamento dalla malattia, mettendo in atto un dualismo tra noi e le
vicissitudini del corpo, dualismo che potrebbe giustificarsi se si
accompagnasse a una visione platonica di un corpo prigione e di un’anima prigioniera
che risplenderà proprio uscendo dalla reclusione corporea: non in una visione
“laica” della vita. Purtroppo, si deve ancora una volta verificare come l’avidya (l’ignoranza della natura
profonda della realtà) ci faccia dimenticare che siamo essenziati di
impermanenza, di insoddisfacenza dolorosa, di attaccamenti e avversioni. La
vita è perennemente in un equilibrio dinamico, sostenibile per un certo tempo e
poi non più. A quel punto i processi di disgregazioni prevalgono e la nostra
stessa personalità viene attaccata: le nostre funzioni fondamentali
(nutrizione, motricità, sessualità) declinano e, a seconda dei casi e delle
“terapie” messe in atto, dolore, vomito, cefalea, vertigini, deficit cognitivi
avviano a una fine più o meno sofferta. La natura, che pur produce il miracolo
della coscienza, sembra avere bisogno di rinnovare continuamente i singoli
portatori di consapevolezza per “rimediare” così alla loro intrinseca
debolezza: altro che allontanamento dualistico e «riempirsi di futuro» con un
calendario sempre più fitto di appuntamenti! La narrazione della nostra
sofferenza è la nostra ultima meravigliosa difesa (ricordiamo M. Duras: «Andiamo
a vedere l’orrore, la morte» e «sono sola… ho paura», e: «Va bene, ho trovato
le parole, bisogna chiudere la pagina»). Poi, da soggetti narranti saremo, con
un tragico anacoluto, soggetti narrati. «Io o lui, vedremo chi la spunta», dice E. B. Un
“laico” un po’ più consapevole, meno arrogante e più ironico, W. Churcill,
aveva dato una sua “risposta”: «La vita è una meravigliosa avventura. Peccato
che non sia mai a lieto fine!» Alla “spiritualità laica” alla Bonino, posso solo dire: “No, grazie!”
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