Le religioni sono vie di accesso, ma anche sistemi di regole
per proteggere l’uomo dai rischi di un contatto troppo ravvicinato col sacro e
la Totalità, contatto che non può essere “sopportato” che per brevi momenti:
giungendo al mondo dietro il mondo, vedendo ciò che non deve essere visto si
potrebbe acquisire un sapere che sconvolge, che fa divenire folli o morire.
Nella Torah il divieto è esplicito e categorico: «“Farò passare davanti a te
tutto il mio splendore e proclamerò il mio nome: Signore, davanti a te. Farò
grazia a chi vorrò far grazia e avrò misericordia di chi vorrò aver
misericordia”. Soggiunse: “Ma tu non potrai vedere il mio volto, perché nessun
uomo può vedermi e restare vivo”» (Es 33, 18-20). E numerosi sono gli esempi
che sottolineano la temerarietà o hýbris
presente nell’essere entrato nella particolare sfera di energia del sacro
venendo meno alle norme di prudente separazione, temerarietà pesantemente
punita anche quando c’è error e non scelus essendo la trasgressione commessa
inconsapevolmente: di qui il valore protettivo dei riti e dei simboli condivisi
e consacrati che “regolano” il contatto con la sfera dell’inaccessibile.
Sempre nella Torah (II Sam 6, 6-8) si racconta di Uzzà che
stese la mano verso l’arca e vi si appoggiò perché i buoi la facevano piegare e
di come l’ira del Signore si accese contro Uzzà: «Elohîm lo percosse per la
trasgressione. Egli morì sul posto, presso l’arca di Elohîm». Davide si
rattristò per il fatto che il Signore si era scagliato con tale impeto contro Uzzà.
Un altro episodio riguarda i figli di Aronne (Lev 10, 1-2) che «offrirono
davanti al Signore un fuoco illegittimo, che il Signore non aveva loro
ordinato. Ma il fuoco si staccò dal Signore e li divorò e morirono così davanti
al Signore».
Viene poi (Lv 18) dettagliata una serie di proibizioni
sessuali legate a visioni e contatti, come le seguenti: «Non recherai oltraggio
a tuo padre avendo rapporti con tua madre: è tua madre; non scoprirai la sua
nudità. Non scoprirai la nudità della tua matrigna; è la nudità di tuo padre.
Non scoprirai la nudità di tua sorella, figlia di tuo padre o figlia di tua
madre, sia nata in casa o fuori. Non scoprirai la nudità della figlia di tuo
figlio o della figlia di tua figlia, perché è la tua propria nudità. Non
scoprirai la nudità della figlia della tua matrigna, generata nella tua casa: è
tua sorella. Non scoprirai la nudità della sorella di tuo padre; è carne di tuo
padre. Non scoprirai la nudità della sorella di tua madre, perché è carne di
tua madre. Non scoprirai la nudità del fratello di tuo padre, cioè non ti
accosterai alla sua moglie: è tua zia. Non scoprirai la nudità di tua nuora: è
la moglie di tuo figlio; non scoprirai la sua nudità. Non scoprirai la nudità
di tua cognata: è la nudità di tuo fratello.
Non scoprirai la nudità di una donna e di sua figlia; né prenderai la
figlia di suo figlio, né la figlia di sua figlia per scoprirne la
nudità: sono parenti carnali: è un’infamia».
Il mondo classico, analogamente, ci presenta vari casi, tra
i quali possiamo ricordare quelli molto significativi di Atteone e di Edipo.
Atteone (v. Callimaco, Ovidio, Nonno di Panopoli), fu trasformato
in cervo e sbranato dai suoi stessi cani per aver visto Artemide nuda, divenuto
spettatore «della dea che non è consentito vedere». Così ne narra Ovidio (Metamorfosi, III):
Dumque ibi perluitur solita Titania lympha,
ecce nepos Cadmi dilata parte laborum
per nemus ignotum non certis passibus errans
pervenit in lucum: sic illum fata ferebant.
Qui simul intravit rorantia fontibus antra,
sicut erant nudae, viso sua pectora nymphae
percussere viro, suitisque ululatibus omne
implevere nemus circumfusaeque Dianam
corporibus texere suis; tamen altior illis
ipsa dea est collooque tenus supereminet omnes.
Qui color infectis adversi solis ab ictu
nubibus esse solet aut purpureae Aurorae,
is fuit in vultu visae sine veste Dianae.
[Mentre là dentro ne vanno come sempre
irrorando la figlia del Titano, ecco giungere al bosco il nipote di Cadmo, che
ha smesso ogni traffico e ha errato con passi malcerti per forre a lui
sconosciute, seguendo la guida del fato. Non s’era ancora affacciato alla
grotta stillante di spruzzi che, nude com’erano, le ninfe alla vista di un uomo
si batterono il petto e riempirono il bosco di grida stringendosi intorno a
Diana e cercando di colpirla col corpo; ma più alta di loro è la dea, di una
testa le supera tutte. L’identica tinta che sempre colora le nuvole colpite dai
raggi del sole o l’aurora di porpora comparve sul volto di Diana, vista così
senza vesti (tr. it. di Ludovica Koch)].
Diana,
nipote del titano Coeo, quindi dotata di un doppio potere divino, arcaico e
recente, mostra un rossore espressione più di ira che di virginale modestia e
infligge la tremenda punizione ad Atteone, benché (come per Edipo) la sua
condotta sia priva di scelus (essendo guidato dal fato: sic illum
fata ferebant).
Il mito di Edipo (e la
drammatizzazione tragica che ha ricevuto da Sofocle) ci porta a divieti legati
alle relazioni di parentela e alle origini, e quindi al tabù dell’incesto,
terreno di scontro tra desiderio di “conoscere” e divieti che proteggono da
situazioni “pericolose”. Nel nostro sapere sulle origini di noi stessi c’è,
infatti, un punto cieco, un insuperabile non-sapere relativo alla vita dei
corpi che generano corpi, al mistero della congiunzione, momento sacro di
non-dualità, coniunxio oppositorum
dei sessi, dotata del potere magico di “estrarre” una nuova vita dall’abisso
della “latenza” prenatale: mistero insondabile del congiungimento (dei
genitori, quando i figli ovviamente non c’erano), che non può essere rivelato
(ai figli) e la cui “conoscenza”, mediante una esperienza incestuosa, verrebbe
a scontrarsi con la proibizione in cui si esprimono norme di convivenza sociale
e divieti di diretto contatto col sacro. Edipo si interroga, vuole sapere:
rispondendo alla Sfinge, in una sfida in cui conoscere è questione di vita o di
morte, lotta per sopravvivere, lotta per la realtà e, passando attraverso il
tormento dell’interrogazione, acquista la tragica consapevolezza della condizione
umana. Ma egli vuole sapere anche sulla sua propria origine (chi è? di chi è
figlio? «Non posso non far luce sulla mia origine»; «devo sapere», Sofocle, Edipo re, v. 1059 e 1066) e sulla natura
delle sue azioni (nel sospetto di parricidio e incesto), disposto a pagare
tutto il prezzo di sofferenza che quella conoscenza può comportare («attraverso
il patimento, il sapere», secondo le parole di Eschilo, Agamennone e «molta sapienza, molto affanno; chi accresce il
sapere, aumenta il dolore nel Qoèlet,
1,18).
La tragedia ci fa partecipi del disvelamento a cui giunge
Edipo riguardo alla natura delle sue
origini e delle sue azioni («Tutto è ormai chiaro. O luce del sole che io ti
veda per l’ultima volta, perché oggi è avvenuta la rivelazione che sono nato da
chi non mi doveva generare, mi sono congiunto con chi dovevo fuggire, ho ucciso
chi non dovevo uccidere», 1182-85): non solo ha ucciso il padre, ma con la
“nudità” di sua madre anche lui ha visto ciò che non si doveva vedere: nella
consapevolezza dell’incesto compiuto, scopre di essere entrato in contatto con
la coincidentia oppositorum, col sacro
nel sesso, che non consente più di vivere una vita ordinaria. Il sole, il
sesso, la morte, il sacro non possono essere visti “a occhio nudo” se non
vogliamo rimanerne accecati: chi, come Edipo, ha superato il limite del sapere
del determinato e “visto” il Tutto indiviso, non ha niente altro da vedere,
perché quel che potrebbe ancora incontrare avrebbe solo valore di simulacro: la
cecità di Edipo non è, dunque, una banale, pur se orribile, punizione, ma la
dichiarazione dell’impossibilità di vedere la parte dopo aver visto il Tutto. Occorre
allontanare per vedere, distanziare per vivere, evitare i cortocircuiti per far
circolare la corrente. Con l’atto generativo tra “estranei”, che pur conserva
in sé un sentore di peccato, si aggiungono anelli alla catena dell’insondabile,
si realizza un distanziamento dal punto iniziale e si attutisce lo
sconvolgimento del contatto col mistero originario: una convivenza con la figura del padre è
possibile e, grazie a un incesto simbolico (in ogni donna l’ombra di Giocasta!),
lo sguardo sulle origini è ormai protetto da un utile velo per cui si può sopportare
la vita. Sublimazione, diluizione, dilazione...
«Apollo fu, Apollo miei cari, che ha voluto questi miei
patimenti atroci», dice Edipo. In effetti, la condotta di Edipo è stata priva
di scelus, anzi egli ha fatto di
tutto per allontanarsi dal destino che aveva intravisto attraverso il messaggio
dell’oracolo. L’oracolo aveva “parlato” al padre e a Edipo stesso, ma «il
signore, a cui appartiene quell’oracolo che sta a Delfi, non dice né nasconde,
ma accenna» (Eraclito), cioè né svela né inganna, solamente allude, mostrando
come le azioni siano già disegnate e indirizzate, ma non tanto da impedire
l’azione a chi interroga, lasciandogli l’occasione dell’errore e, infine, lo
spazio per una presa di coscienza che segna una discontinuità nell’azione degli
dèi, in definitiva rispettosa dell’uomo, che può reperire, proprio in questa
lacuna, lo spazio della propria dignità. È quanto Edipo ribadisce con forza a
Creonte: «Tu sputi dalla tua bocca assassinii e accoppiamenti e calamità che ho
subito mio malgrado. Evidentemente piacque così agli dèi, forse adirati da
tempo remoto contro la mia stirpe. Sì, perché di certo non troverai da
rinfacciare a me personalmente alcuna colpa volontaria, […] se, tramite
l’oracolo, arrivò a mio padre la profezia che sarebbe morto per mano di un suo
figlio, come puoi ragionevolmente rimproverare a me, che non ero ancora nato,
anzi che non ero stato nemmeno concepito da mio padre e da mia madre?» (962
ss.).
Ciò che dagli dèi (o dal Fato) è
stato disposto non può essere deviato o corretto: gli dèi, al fine di
(ri)stabilire la giustizia (violata da qualche pregressa forma di hýbris), programmano il corso degli eventi, ma sta
agli uomini “interpretarlo” e, quando poi è raggiunta la consapevolezza di
essere stati veicolo di una Volontà più alta o più ampia (nello Straniero di Camus, Meursault non
sapendo come giustificare l’omicidio che ha commesso dirà «che era stato a
causa del sole», in Opere, tr. it., Milano,
Bompiani, 1996, p. 179), l’assunzione della “responsabilità” di essere stati
via del passaggio del male produce una discontinuità, che il genio tragico
mette in luce. Nel caso di Edipo, continuare a vivere nel determinato non
poteva significare che percorrere un cammino di espiazione (quello rappresentato
appunto nell'Edipo a Colono), divenendo, per questo, un personaggio
speciale, capace di portare beneficio e indurre santificazione. Secondo R.
Barthes, nella tragedia un fenomeno si tramuta nel contrario: il potere in
disgrazia, la fortuna in sfortuna, la ricchezza in miseria… Il male irreversibile che può colpire
l’individuo facendogli commettere degli “errori” agendo contro giustizia, anche
se non intenzionalmente, trova un riscatto che non passa attraverso il
pentimento o il rimorso, ma, una volta raggiunta la consapevolezza di essere
stato strumento della volontà divina («le mie azioni io non le ho decise, ma le
ho patite», Edipo a Colono, v. 266) e
di essere caduto, «sotto l’impulso degli dèi» (v. 998), in un «abisso di
calamità», attraverso un cammino di espiazione e il pagamento di un prezzo di
patimento “necessario” (ma che non implica — come il pentimento — una
partecipazione soggettiva) per il ristabilimento di giustizia e armonia:
coscienza di aver compiuto il male e convinzione di innocenza possono così
paradossalmente coesistere. Il disvelamento apporta grande dolore e grande
sapere, ma apre a Edipo le porte della redenzione attraverso un martirio che lo
trasforma da reietto in eletto. Egli potrà, perciò sentirsi ormai «puro,
consacrato agli dèi e aiuto agli abitanti di questa città» (286). A Colono“
egli è santificato” e, questa volta — sempre per effetto di una Volontà
superiore — divenire tramite di
interventi divini ri-equilibratori. Come dice la figlia Ismene, «Adesso gli dèi
ti risollevano come prima ti rovinarono» (394).
Le religioni hanno, dunque,
stabilito codici di accesso-al e di distanza-dal sacro, ma la modernità
secolarizzata considera ormai arcaismi i tabù, i divieti biblici e i miti; la
psicoanalisi ha visto in Edipo “il nostro eroe” (poiché nelle fantasie edipiche
egli è quello che ciascuno vorrebbe essere) e, nel disincanto generale, la
trasgressione finisce per banalizzare sé stessa. Nell’Atteone e Diana di Tiziano qualcuno legge più che la punizione di
chi ha osato spiare ciò che dovrebbe restare occulto la felice condizione di
chi, almeno per un istante senza tempo, ha potuto godere, costi quel che costi,
la contemplazione della divina bellezza: si intravede il rischio calcolato e
accettato dal “moderno” che, con Baudelaire, potrebbe dire: «Che importa
l’eternità della dannazione a chi ha trovato in un istante l’infinito della
gioia?»
In tutte le “creazioni” (del
mondo, degli dèi, di noi stessi, delle opere d’arte...) compare una dimensione
di Totalità, non-dualità, sacralità, ineffabilità. Potrebbe ritrovarsi qui la
possibilità di procedere a un nuovo incanto del mondo e a una nuova disciplina
di rapporto con l’inaccessibile?
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