Per approfondire
il tema del valore che il soggetto ha nella tradizione buddhista può essere
interessante tornare a quando papa Giovanni Paolo II, parlando della salvezza
nel buddhismo, rilevava (in Varcare la soglia della speranza (con
Vittorio Messori, Milano, Mondadori, 1994, cap. 14) che «sia la tradizione sia
i metodi da essa derivati conoscono quasi esclusivamente una soteriologia
negativa. L’“illuminazione” sperimentata da Budda si riduce alla
convinzione che il mondo è cattivo, che è fonte di male e di sofferenza per
l’uomo. Per liberarsi da questo male bisogna liberarsi dal mondo; bisogna
spezzare i legami che ci uniscono con la realtà esterna: dunque, i legami
esistenti nella nostra costituzione umana, nella nostra psiche e nel nostro
corpo. Più ci liberiamo da tali legami, più ci rendiamo indifferenti a quanto è
nel mondo, e più ci liberiamo dalla sofferenza, cioè dal male che proviene dal
mondo». Richiamandosi poi alla Gaudium et spes (costituzione conciliare
nella quale, premesso che «la persona umana, che di natura sua ha assolutamente
bisogno d’una vita sociale, è e deve essere principio, soggetto e fine di tutte
le istituzioni sociali», § 25, si constata che «cresce la coscienza
dell’eminente dignità della persona umana, superiore a tutte le cose e i cui
diritti e doveri sono universali e inviolabili. Occorre perciò che sia reso
accessibile all'uomo tutto ciò di cui ha bisogno per condurre una vita
veramente umana, come il vitto, il vestito, l’abitazione, il diritto a
scegliersi liberamente lo stato di vita e a fondare una famiglia, il diritto
all’educazione, al lavoro, alla reputazione, al rispetto, alla necessaria
informazione, alla possibilità di agire secondo il retto dettato della sua
coscienza, alla salvaguardia della vita privata e alla giusta libertà anche in
campo religioso», § 26), concludeva che «tra le religioni dell’Estremo Oriente,
in particolare il buddismo, e il cristianesimo ci sia un’essenziale differenza
nel modo di intendere il mondo», per cui, facendo infine riferimento al documento
della Congregazione per la dottrina della fede Su alcuni aspetti della
meditazione cristiana, si ricordavano ai fedeli i “pericoli” insiti nelle
pratiche buddhiste.
Per comprendere
appieno le affermazioni di Karol Wojtyla dopo il suo viaggio in Oriente bisogna
ricordare che, ai tempi del Concilio, egli aveva rivolto a Paolo VI un accorato
appello affinché fosse emanata una speciale dichiarazione sulla libertà
religiosa, che sarebbe stata, come giustamente prevedeva, un grido di battaglia
nei confronti dei regimi totalitari, in quanto la rivendicazione della libertà
religiosa avrebbe finito per veicolare la richiesta del rispetto di tutti gli
altri diritti di libertà. Quella dichiarazione fu, com’è noto, approvata e in
essa è detto che «nell'età contemporanea gli esseri umani divengono sempre più
consapevoli della propria dignità di persone e cresce il numero di coloro
che esigono di agire di loro iniziativa, esercitando la propria responsabile
libertà, mossi dalla coscienza del dovere e non pressati da misure coercitive.
Parimenti, gli stessi esseri umani postulano una giuridica delimitazione del
potere delle autorità pubbliche, affinché non siano troppo circoscritti i
confini alla onesta libertà, tanto delle singole persone, quanto delle
associazioni, [poiché] il diritto alla libertà religiosa si fonda realmente
sulla stessa dignità della persona umana quale l’hanno fatta conoscere la
parola di Dio rivelata e la stessa ragione» (Dignitatis humanae).
E alla Gaudium
et spes esplicitamente Giovanni Paolo II si rifaceva nella sua prima
enciclica Redemptor Hominis (1979) per
fondare sulla base dell’Incarnazione e della Redenzione la dignità dell’uomo,
«perché l’uomo — ogni uomo senza eccezione alcuna — è stato redento da Cristo,
perché con l’uomo — ciascun uomo senza eccezione alcuna — Cristo è in qualche
modo unito, anche quando quell’uomo non è di ciò consapevole» (14). Ma ancor
più rilevante, al fine di rimarcare le differenze tra la soteriologia buddhista
e quella cristiana, si rivela il discorso — forse non sufficientemente
valorizzato — che il papa tenne all’Università di Lublino (9 giu. 1987), nel
quale, senza riferirsi al buddhismo o ad altre tradizioni in particolare, egli
pronunciava un forte appello in difesa proprio della soggettività. Disse allora
il papa: «La soggettività nasce dalla natura stessa dell’essere personale:
corrisponde prima di tutto alla dignità della persona umana. È la conferma, la
verifica e insieme l’esigenza di questa dignità, sia nella vita personale che
in quella collettiva. Gli atenei, fucine di lavoro culturale, operanti secondo
una molteplice metodologia, sono chiamati a questo in modo particolare. [...]
La società attende dalle sue università il consolidamento della propria
soggettività, attende la dimostrazione delle ragioni che la fondano, e dei
motivi e delle iniziative, che la servono. [...] Permettete che, a questo
punto, io riporti un testo biblico. Certamente esso non ha valore dal punto di
vista dei princìpi e dei metodi della scienza empirica. Possiede invece un’importanza
simbolica. Sappiamo che “simbolo” vuol dire segno di convergenza, di incontro e
di reciproca adesione di dati elementi. Penso che il testo del Libro della
Genesi, che riferirò — senza pretese di esattezza dal punto di vista delle
scienze empiriche — possieda anche un proprio, specifico significato per
l’intelletto stesso che ricerca la verità sull’uomo. Ecco il passo: “Allora il
Signore Dio plasmò dal suolo ogni sorta di bestie selvatiche e tutti gli
uccelli del cielo e li condusse all’uomo, per vedere come li avrebbe chiamati:
in qualunque modo l’uomo avesse chiamato ognuno degli esseri viventi, quello
doveva essere il suo nome. Così l’uomo impose nomi a tutto il bestiame, a tutti
gli uccelli del cielo e a tutte le bestie selvatiche, ma l’uomo non trovò un
aiuto che gli fosse simile” (Gen 2, 19-20). Ecco, indipendentemente da ciò che
cogliamo con il metodo empirico (o piuttosto con molti metodi) sul tema
dell’“inizio”, il testo sopracitato sembra possedere una formidabile importanza
“simbolica”. Anzi, in un certo senso raggiunge le radici stesse del problema:
“il posto dell’uomo nel cosmo”. Si potrebbe anche dire che costituisce una
certa espressione della convergenza di tutto ciò che contengono in sé le
ricerche condotte coi metodi delle scienze empiriche. Tutte infatti, nella
ricerca delle tracce originarie dell’uomo, si lasciano nel contempo guidare da
un certo fondamentale concetto dell’uomo. Possiedono una risposta elementare
almeno all’interrogativo: in che cosa l’uomo si distingue dagli altri esseri
nel cosmo visibile. L’uomo, “sin dall’inizio”, distingue se stesso da tutto il
cosmo visibile, in particolare dal mondo degli esseri in certo senso a sé più
vicini. Essi tutti sono per lui un oggetto. Lui solo rimane il soggetto in
mezzo a loro. Lo stesso Libro della Genesi parla dell’uomo come di un essere
creato ad immagine di Dio e a sua somiglianza. Anzi, alla luce del passo
sopracitato è al tempo stesso chiaro che quella soggettività dell’uomo si
collega in modo essenziale alla conoscenza. L’uomo è soggetto in mezzo al mondo
degli oggetti, perché egli è in grado di obiettivare in modo conoscitivo tutto
ciò che lo circonda. Infatti, mediante il proprio intelletto egli è “per
natura” orientato verso la verità. Nella verità è contenuta la sorgente della
trascendenza dell’uomo nei riguardi del cosmo in cui vive».
Le valutazioni
sul buddhismo espresse da Giovanni Paolo II suscitarono disappunto e proteste
da parte dei buddhisti della tradizione Hinayana ma, di fronte alla “riduzione”
del soggetto auspicata da questa scuola in ragione della visione di esso come
pura illusorietà e della stretta connessione tra liberazione dalla sofferenza e
“mortificazione” dell’ego, l’assunto etico “occidentale” del valore della
centralità della persona, con le conseguenti promozione e difesa del soggetto,
della sua autonomia, dei suoi diritti-doveri inviolabili e non negoziabili,
dobbiamo osservare che trova proprio nella concezione cristiana della persona
una delle sue insopprimibili radici. Le differenze e opposizioni
tra queste due visioni sono state, di recente, in nome di un discutibile
concordismo interreligioso, fin troppo sottaciute, ma non va ignorato che il
giudizio espresso da papa Wojtyla non è dissimile da quello formulato da
buddhisti della tradizione Mahayana nei confronti della visione della scuola
Theravada o Hinayana. «Poiché il Buddhismo Hinayana insegna», leggiamo ad es.
nel Dizionario del Buddismo della SGK (Milano, Esperia, 2002, p. 512),
«che lo scopo ultimo della pratica può essere raggiunto soltanto al momento
della morte, è stato descritto come l’insegnamento del “ridurre in corpo in
cenere e annientare la coscienza”». Inoltre, vorrei ricordare che non sono
mancate prese di posizione come quella, ad es., autorevolmente espressa (nel
seminario promosso nel 1983, dal Pontificio istituto missioni estere e dall’Abbazia
di Praglia, atti pubblicati col tit. Liberaci dal male, Bologna, EMI,
1983) dallo studioso Mario Piantelli che affermava: «Mentre la spiritualità
ascetica del Cristianesimo, in Oriente e in Occidente, durante i due millenni
trascorsi ha proceduto in sostanza (pur sullo sfondo di una metafisica diversa)
per lo stesso sentiero di quella buddhistica, la crescente importanza assunta
dal concetto di “persona” come centro di valori nei tempi più recenti e la
correlativa “mondanizzazione” della visione cristiana — con i suoi agganci
biblici — ha indubbiamente allontanato le due spiritualità, che oggi sono sotto
più di un aspetto agli antipodi».
La distanza tra
queste due millenarie tradizioni è, dunque, incolmabile? Vorrei non crederlo e,
come da tempo vado sostenendo, ritengo che nel buddhismo della tradizione
Mahayana (e in particolare nell’insegnamento della scuola Tiantai/Tendai), sia
possibile trovare, a fronte della “mortificazione” Hinayana, tutti i
presupposti per sostenere una “intensificazione” e valorizzazione del soggetto
che, pur se non ancora sviluppata in modo paragonabile alla forte affermazione
presente nella tradizione cristiana, possa costituire proprio uno dei caratteri
maggiormente caratterizzanti la espressione europea del messaggio dell’Illuminato
e fornire, al tempo stesso, diverse e forse più valide basi al dialogo
cristiano-buddhista.
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