Siamo nel periodo di Edo (1603-1867), epoca che, nella periodizzazione della storia giapponese, si riferisce agli anni in cui lo shōgun (“signore della guerra”) portò di fatto la capitale da Kyoto (la “capitale
occidentale”) a Edo (letteralmente “entrata nella baia”, poi divenuta Tokyo, la
“capitale orientale”): gli anni della dominazione dei Tokugawa (1603-1853). In una cultura che ha
sostenuto e promosso il valore della formalizzazione, per cui ogni azione viene
regolata da norme (keishiki-ka) e
l’eleganza sta nel raggiungere la bellezza della/nella completa perfezione (kanzen shugi), sembrerebbe non ci possa
essere posto per l’individuo, trattandosi di una società olistica in cui tutto
appare finalizzato alla coesione sociale e al benessere collettivo. E invece,
ecco che compare una serie di individui, qualificati come “eccentrici”, distaccati dalla norma e dal
mondo, lontani dai valori comuni e che hanno tutte le carte per divenire degli
eroi letterari, con la loro “stupidità” paradossalmente sinonimo di intelligenza
e individualismo. Eremiti, lunatici, distaccati anche dalle regole della
religione, fanno della loro esistenza, col rifiuto delle norme e in fuga dai
tumulti del mondo, un elogio vivente di libertà.
Questa cultura del distacco e della valorizzazione della cura di sé, dell’ombra
(junghiana), del mondo interiore, dedito alla ricerca di una identità
personale, viene a essere oggetto di una serie di opere, che formano un genere particolare
(eremitismo letterario), come quella di Hayashi Dokkosai (1624-61), Storia di quelli che nel nostro Paese hanno
fuggito il mondo; di Gensei (prete della setta Nichiren, 1623-1668), Vite di coloro che in Giappone si sono
ritirati dal mondo; di Hotta Rekurin (medico e letterato), Biografie di folli della regione di Nagoya
(1778) e, soprattutto, di Ban Kokei (1733-1806), autore delle Kinsei kijin den (Vite di uomini eccentrici [o illustri
o straordinari] del nostro tempo,
1790). Ban Kokei apparteneva al circolo dei bunjin
o letterati (sganciati sia dalla società dei samurai sia da quella urbano-mercatile dei chonin o uomo della città), amanti della cultura cinese e che si
dedicavano alla letteratura o alle arti figurative.
Di quella “strana” letteratura sugli eccentrici del periodo di Edo ha scritto
lo studioso François Lachaud (dell’École française d’Extrême-Orient e
dell’dell’École Pratique des hautes études) nel libro, Le vieil homme qui vendait du thé – Excentricité et retrait du monde
dans le Japon du XVIIIe siècle, Paris, Les éditions du cerf,
2010 (con un Avant-propos di Jean-Noël Robert, Membre de l’Institut, prof. au
Collège de France). Per avere qualche raro esempio occidentale, in qualche modo
vicino a quelle opere, F. Lachaud (in riferimento all’“uomo singolare” di cui
parla Baudelaire nel suo Le
rêve d'un curieux,1860)
cita la raccolta intitolata Les Illuminés
(1852), in cui Gérard de Nerval tentava di rintracciare biografie di individui
singolari con ambizioni o rimpianti mistici o esoterici, e Les Excentriques (1856), di J. F. F. Husson (detto Champfleury). E a me viene in mente anche il libro Incontri con uomini straordinari di Georges I. Gurdjieff, pubblicato postumo nel 1960.
Tornando alle biografie scritte da Ban Kokei, la più lunga è quella dedicata
a Baisao (ossia “il vecchio venditore di tè”), noto anche col nome d’arte Ko
Yugai da lui adottato (1675-1763), era un monaco della scuola zen Obaku (fonte
di vivente conoscenza in terra giapponese della cultura continentale cinese); tornato
laico, divenne famoso come venditore ambulante di tè nella zona di Kyoto. E qui
viene appunto in ballo la tematica del tè. Questo non era considerato una
semplice bevanda, ma un modo di entrare, in un atteggiamento meditativo, nella
conoscenza di sé e del rapporto con il mondo, gli altri, il divino, gli
“immortali” (taoisti). La “via del tè”, com’è noto, è parte delle cosiddette
“arti giapponesi” o “arti zen”, e fu “codificata” dal Maestro Sen no Rikyu
(1522-91). Ma — agli occhi degli eccentrici del periodo di Edo — essa aveva
finito per perdere di significato per un eccesso di formalismo estetico e per
la limitatezza del distacco che offriva (circoscritto al tempo della
cerimonia), in contrasto con l’esigenza di una fuga integrale dal mondo. Si
manifestò quindi anche un diverso uso del tè: non più quello macinato (matcha) usato nella “cerimonia del tè” (chado), ma il sencha (il tè verde in foglie, da utilizzare come infuso). Baisao è
considerato il fondatore o sistematizzatore dell’arte del tè in foglie (senchado), una cerimonia più semplice,
democratica, non attaccata ai formalismi, ma non, per questo, priva di valore
spirituale, Ecco come egli stesso la illustra in questa poesia nota col titolo
popolare di Poema del tè (chashi).
Ben chiusa la mia porta di sterpi: nessun visitatore volgare.
Un cappello di seta sulla testa, metto in infusione e bevo il tè.
Nuvole di vapore blu, portate dal vento, non si disperdono.
Una luce di fiori bianchi è sulla superficie della tazza.
Prima tazza: gola e labbra umettate.
Seconda tazza: fuggo i mali della solitudine.
Una terza tazza percorre il mio ventre vuoto e vi lascia cinquemila volumi
di caratteri*!
Quarta tazza: con un lieve sudore tutte le ingiustizie del quotidiano
fuggono attraverso i pori.
Quinta tazza: pelle e ossa purificate.
Sesta tazza: comunico con gli immortali.
La settima tazza non la posso bere. Sotto le mie ascelle sento
semplicemente passare un vento puro. Dov’è il Monte Penglai**? Il Maestro del
fiume di giada*** vi torna, a cavallo di questo vento puro.
(traduzione di R. V.)
*interpreto: il tè porta nutrimento culturale.
**monte della mitologia cinese, sede degli immortali (santi/divinità
taoisti). In Giappone è stato identificato col Monte Fuji.
***si tratta di Lu Tong, poeta cinese (morto nell’anno 835), figura tutelare della vita e della poetica di Baisao. Con “giardino del fiume di giada” si indica uno stile dei giardini alla cinese, la cui paternità rimonterebbe a Lu Yu e a Lu Tong, e che i giapponesi amanti del tè cercavano di riprodurre.
***si tratta di Lu Tong, poeta cinese (morto nell’anno 835), figura tutelare della vita e della poetica di Baisao. Con “giardino del fiume di giada” si indica uno stile dei giardini alla cinese, la cui paternità rimonterebbe a Lu Yu e a Lu Tong, e che i giapponesi amanti del tè cercavano di riprodurre.
1 commento:
Davvero interessante!
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