Ogni giorno ha già la sua pena; continuo, disciplinatamente,
la terapia, senza guardare oltre: Sufficit
diei malitia sua (Mt 6, 34). Addirittura l’unità di tempo si riduce, a
volte, dal giorno a un’ora: fermarsi lì senza andare oltre... Dietro la
decantata nobiltà della presenza mentale nel qui e ora, avverto il côté “difensivo” dell’attenzione
circoscritta e vi scorgo una dimensione di viltà a cui non avevo in precedenza
pensato.
Giornata della memoria: nonostante tutta la nostra buona
volontà quanto rimaniamo inevitabilmente lontani dall’esperienza di chi ha
subito violenza, sopraffazione, umilianti sofferenze per persecuzioni,
sventure, nelle calamità naturali, nelle malattie, nelle persecuzioni, fino
alla shoah! Conoscenza non è esperienza e la divisione dei nostri vissuti, biologicamente
“protettiva”, ci consente, nel migliore dei casi, la nostra azione etica
solidale, sempre tuttavia inadeguata e che mi pare dovrebbe essere accompagnata
da una richiesta di perdono per sfuggire al senso di vergogna e di colpa per
tutti i patimenti inflitti ad altri e che ci sono stati, non sapremo mai
perché, risparmiati.
Non possiamo sceglierci neppure le sofferenze: ci crediamo
pronti a sopportare dolori considerati “nobili” e veniamo invece confrontati
con la elementarità di sofferenze che non erano nelle previsioni, fatte di vissuti faticosi,
sgradevoli, umilianti... Tuttavia, la malattia mi consente di guardare
ormai con tenerezza e nostalgia anche alle aborrite festività e alle piccole
quotidianità sottovalutate se non disprezzate. Ricordo il bel film di Walter Ruttmann
(Berlino-Sinfonia di una grande città,
1927), in cui un treno arriva al mattino a Berlino, la città si risveglia, la
giornata “ordinaria” viene seguita nel succedersi delle ore e la narrazione (qui
la particolare “visione” del cinema): un modo efficace per sottrarre il
semplice al banale...
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