lunedì 27 gennaio 2014

Colombe, corvi e gabbiani

Le foto delle bianche colombe liberate dal balcone del papa che finiscono preda di corvi e gabbiani ci spingono ad amarezza e ineluttabili riflessioni. Quelle colombe in natura non esistono e sono un prodotto della conoscenza  che ha consentito di operare una selezione per finalità estetica, dando ad essa un valore simbolico di carattere etico: tutti valori umani ai quali fa contrasto la “legge di natura” del predatore più forte e della vittima più debole. A dispetto della retorica misericordiosa del papa Francesco, il fatto ci rimanda alla contrapposizione tra le crudeli leggi del mondo e le esigenze valoriali umane o, se vogliamo, alla contrapposizione tra la Legge del Padre e quella del Figlio.

E poi perché esporre così imprudentemente quelle creature a una caccia tanto brutale? Anche la bellezza e la carità hanno bisogno di essere "amministrate" con accortezza e mediazioni.

sabato 25 gennaio 2014

Cariatidi e dintorni#41/Milano, Museo Poldi Pezzoli


camino nel Museo Poldi Pezzoli
(foto Antongiulio Panizzi)

giovedì 23 gennaio 2014

Spiritualità del finito#2/Claudio Magris

Quando si parla di spiritualità del finito non è contraddittorio riferirsi al sentimento e al bisogno di trascendenza, intesa questa non in senso ontologico, ma come un diverso sguardo da portare alla realtà dei fenomeni, con il sentimento di essere attraversati da una forza che ci sorpassa e come un orizzonte che avvolge le cose e dà loro un senso, motivandoci a una vita aperta, espansa, realizzata nell’intensificato impegno alla creazione di valore. In questa prospettiva, la pagina di Claudio Magris (Corriere della sera, 20 08 12) che mi sembra utile riproporre.

L’Infinito, qui e ora, nelle cose della Vita
«Tutte le immagini - dice una poesia di Montale - portano scritto: “Più in là”». È questo oltre, questo «Più in là» che dà senso a ogni concreta realtà finita. I nostri pensieri, i nostri sentimenti, le nostre azioni, la nostra esistenza non si limitano alla loro particolarità; si collocano in una dimensione infinitamente più grande che li avvolge e conferisce loro significato. Così come un sorriso non esiste da solo, ma nel volto e nella bocca in cui nasce, nella persona in cui fiorisce e nella persona o nelle persone o nelle cose cui si rivolge e che non sono staccate da noi, ma fanno parte del campo di energie della nostra vita. La Via Lattea, quando la vediamo nelle notti serene, ci sembra lontana, altra da noi, ma invece siamo anche noi in essa, siamo anche noi la Via Lattea. La nostra finitezza è inesorabile e forse non possiamo né dobbiamo occuparci d’altro, ma essa non basta ed è un’illusione delle nostre abitudini e dei nostri pregiudizi che essa sia tutto. Questo senso di ciò che trascende la nostra immediatezza è religioso, ma non ha necessariamente bisogno di una fede precisa. In uno splendido saggio, Horkheimer - marxista critico, padre insieme ad Adorno della Scuola di Francoforte e del pensiero negativo - parla del mondo finito come dell’unico mondo di cui si possa avere conoscenza, ma rimanda pure a un «irriducibilmente Altro» che non si può analizzare, ma non si può espellere dall' orizzonte della mente e del cuore umano. Non so come si possa definire questo Altro: Dio, l’infinito, forse pure con altri nomi. Anni fa un eminente fisico mi disse che la scienza stava distruggendo gli infiniti. Non sono in grado di capire cosa ciò significhi, ma non credo che ciò possa cancellare la verità espressa nell' Infinito di Leopardi, verità oggettiva, che coglie il rapporto dell' individuo col Tutto in cui vive e che sostanzia la sua stessa esistenza. Senza questo senso concreto dell' oltre, non esiste veramente niente e niente può essere vissuto, patito, goduto. Basta uno sguardo, in cui nell' amore si accende improvvisamente qualcosa d' altro, per farci capire che la nostra esistenza non finisce ai confini del nostro corpo, dei nostri interessi, delle nostre paure. Anche l’aprirsi a un altro nell’amicizia varca e trascende le misere frontiere dell' io. Viviamo, anche senza saperlo e senza volerlo, in quest’oltre, come i pesci nel mare. Non avere questa consapevolezza impoverisce la vita, l’Eros, l’avventura. Quest' oltre può essere vissuto e sentito, ma non predicato. «Tutto sta eterno dinanzi al volto di Dio - dice, in una poesia di Goethe, la bellissima Suleika al suo amante -. Amalo in me, per questo istante». In quel momento, l' infinito - se proprio vogliamo chiamarlo così - è baciare quella bocca, non tenere conferenze sull' infinito, sull' amore o su Dio. Forse - non lo so - matematici e fisici possono cercare di catturare l’infinito nei loro calcoli, ma nella vita d' ogni giorno non è certo il caso di rompersi la testa sulla sua inafferrabilità e di atteggiarsi a pensosi e tormentati spiriti profondi in cerca dell’assoluto. Questo oltre lo si vive nelle cose concrete d’ogni giorno, come l' orizzonte che le avvolge e dà loro significato, ma occupandosi della loro e nostra finitezza. Si lamenta, giustamente, che preoccupazioni materiali rendano la società sempre più priva di spiritualità. Ma quest' ultima è reale non se è oggetto di nobili discorsi, ma se è l’atteggiamento con cui si affrontano i problemi d’ogni giorno. Proprio perché Dio è indicibile - ed è patetico ed empio volerlo definire, possedere, farsene rappresentanti ufficiali o interpreti autorizzati, parlare a suo nome - il nostro compito è parlare non dell' infinito ma delle piccole o grandi, buone o cattive cose in cui esso vive e si nasconde, dalle difficoltà casalinghe all' euro o alle pensioni. La preghiera, è stato detto, è attenzione, attenzione amorosa, rigorosa e silenziosa alle cose.

Claudio Magris

giovedì 9 gennaio 2014

Schermaglie#33/Narrare la narrazione

Due recenti film, forse non a caso entrambi interpretati dal magnifico Fabrice Luchini, consistenti in una narrazione sul narrare.
In Nella casa [Dans la maison], di F. Ozon (2012), il rapporto tra il professore Germain e il suo allievo Claude in occasione dei temi che questo gli presenta diviene per il ragazzo, di famiglia povera e problematica, la giustificazione che aspettava per insinuarsi nella casa di suo compagno di classe, questa volta di famiglia medio-borghese, di cui subisce l’attrazione, sociale ed erotica nei confronti della madre dell’amico. Compensazioni reciproche e antagoniste tra professore (che non ha avuto figli e si proietta nell’allievo) e allievo (che cerca una famiglia ideale ed edipica in cui inserirsi). Quando, alla fine, i due si ritroveranno, dopo la doppia denudatio: psicologica e sociale di Rapha Artole (il compagno) e del professore (che perde lavoro, moglie e casa), quasi su un piano di parità, le condizioni sono purificate dai vincoli di ruolo e di classe, e il trionfo della letteratura potrà essere pieno e totale: è lì che si colloca la vera vita, quella degli “altri”, inconsapevoli di sé, osservati e narrati, nel racconto che narra e narrando crea la vita che ancora, convenzionalmente, continuiamo a chiamare “reale”.

In Molière in bicicletta [Alceste à bicyclette], di Ph. Le Guay (2013), due amici attori (uno — Serge Tanneur — che si è ritirato avendo rotto col mondo dello spettacolo e col mondo tout court, l’altro — Gauthier Valence — che dopo i successi tv vuole cimentarsi col teatro classico) si ritrovano su un progetto di rappresentare insieme Il misantropo di Molière. L’amore per lo spettacolo, ma anche le incomprensioni e le rivalità tra i due sono presentate e vissute come attualizzazioni dei rapporti tra Alceste e Filinte, nell’intento di mostrarci come la letteratura offra degli eterni archetipi nei quali viviamo e che continuamente “mettiamo in scena”. Alla fine, entrambi si accorgono di aver fatto un passo più lungo della gamba: “l’attore tv” non regge il confronto col classico e “il misantropo” si conferma nella sua decisione di fuggire il mondo: si torna al punto di partenza e le cose si ordinano come le aveva descritte Molière. Per chi volesse, un’occasione per (ri)vedere Le Misanthrope nel DVD dell’edizione della Comédie fraçaise, con il ruolo di Alceste interpretato dal grande Denis Podalydès.

venerdì 3 gennaio 2014

Finis vitae#5/Pascoli, L’assiuòlo

Non eadem est aetas, non mens/L’età non è più quella, e l’animo neppure

L’assiuòlo, uccello rapace che di notte emette il suo monotono grido chiù chiù, ha ispirato a G. Pascoli una poesia (L’assiuolo), una delle sue “metafisiche” (non cioè del gruppo dalle “familiari”), un notturno impressionistico in cui si riflettono i suoi tristi pensieri («sentivo nel cuore un sussulto, 
com’eco d’un grido che fu») e la sua angoscia di morte che rimane senza risposta 
(come i suoni delle cavallette, «tintinni a invisibili porte 
che forse non s’aprono più»).
La voce dell’assiuolo, onomatopeico chiù, viene ripetuto di strofa in strofa in un’anafora di intensità crescente (da voce che viene dai campi, poi eco di un grido, diviene alla fine un lamento funebre), con una modulazione musicale che, per usare le parole di Cesare Garboli,  «raggiunge qui un limite insuperabile […]. Ogni parola è una nota, e ogni legame tra i periodi un accordo di pianoforte».
L'assiuolo
Dov’era la luna? ché il cielo/ notava in un’alba di perla,/ ed ergersi il mandorlo e il melo/
parevano a meglio vederla./ Venivano soffi di lampi/
da un nero di nubi laggiù;/ veniva una voce dai campi:/
chiù...

Le stelle lucevano rare/
tra mezzo alla nebbia di latte:/ sentivo il cullare del mare,/ sentivo un fru fru tra le fratte;/ sentivo nel cuore un sussulto,/
com’eco d’un grido che fu./ Sonava lontano il singulto:/
chiù...


Su tutte le lucide vette/ tremava un sospiro di vento:/ 
squassavano le cavallette/
finissimi sistri d’argento/
(tintinni a invisibili porte/ 
che forse non s’aprono più?...)/ 
e c’era quel pianto di morte,/ chiù...