Non eadem est aetas, non mens/L’età non
è più quella, e l’animo neppure
L’enciclica Lumen fidei, è nata male ed è finita
peggio. Avrebbe dovuto essere l’ultima dedicata alle virtù teologali, ma sembra
che papa Benedetto l’abbia iniziata malvolentieri, non l’ha conclusa è l’ha
affidata poi al suo successore, il quale, poco interessato — a quanto sembra —
a quanto attiene alla fede, alla liturgia, ai problemi teologici, l’ha chiusa
in tutta fretta, prima del termine dell’“Anno della fede”, quasi a volersi
sbarazzare di un dossier inutile e ingombrante.
Una
riflessione sulla fede sembrava, in partenza, particolarmente importante per
riproporre a un mondo scristianizzato i fondamenti religiosi del cristianesimo
(da non ridurre a semplice cristianità o “religione civile”) e rispondere alla
domanda di una nuova evangelizzazione dell’Europa e del mondo occidentale,
sempre più laici e indifferenti. Ma inutile cercare nel testo una ridefinizione
di questo fondamentale concetto. È vero che il Catechismo aveva già provveduto
a questo, quando, oltre a riportare la nota definizione di San Paolo: «La fede
è fondamento delle cose che si sperano e prova di quelle che non si vedono», possiamo leggere:
«La fede è innanzi tutto una adesione personale dell’uomo a Dio; al tempo
stesso ed inseparabilmente, è l’assenso libero a tutta a verità che Dio ha rivelato»
(cat. 150); «la fede consiste nella disponibilità a lasciarsi trasformare sempre
di nuovo dalla chiamata di Dio. Ecco il paradosso: nel continuo volgersi verso
il Signore, l’uomo trova una strada stabile che lo libera dal movimento
dispersivo cui lo sottomettono gli idoli. […] La fede cristiana è centrata in Cristo,
è confessione che Gesù è il Signore e che Dio lo ha risuscitato dai morti (cfr.
Rom 10, 9). Tutte le linee dell’Antico Testamento si raccolgono in Cristo. Egli
diventa il “sì” definitivo a tutte le promesse, fondamento del nostro “Amen”
finale a Dio (cfr. 2 Cor 1, 20)» (Lumen
fidei, 13, 15).
Né troveremo
affrontato il rapporto tra il libero assenso e la grazia, mentre è più volte
sottolineato che la fede cristiana è «fede nell’Amore pieno, nel suo potere
efficace, nella sua capacità di trasformare il mondo e di illuminare il tempo.
[…] Fede nel suo amore incrollabile per noi, che è capace di entrare nella
morte per salvarci» (LF, 16). Conoscenza
della verità e amore, e dialogo tra fede e ragione erano, d’altra parte, al
centro dello splendido discorso di Regensburg (Ratisbona, 2006) di papa Benedetto
e nell’allocuzione preparata per il suo intervento all’Università “Sapienza” di
Roma (e che l’Università rifiutò di ascoltare!) del 2008, ai quali converrà
ritornare per un giusto approfondimento unitamente all’enciclica Deus caritas est, quella sì grande e
compiuta, la prima di papa Benedetto.
Una osservazione da non trascurare è quella che si riferisce alla fede come
forza consolante nella sofferenza: «Il cristiano sa che la sofferenza non può
essere eliminata, ma può ricevere un senso, può diventare atto di amore,
affidamento alle mani di Dio che non ci abbandona e, in questo modo, essere una
tappa di crescita della fede e dell’amore» (LF,
56). Ma non dimenticherei che Gesù aveva risposto diversamente al dolore della
vedova di Nain (v. post Consolazione#6 in questo Blog).
Nel «Non facciamoci rubare la speranza» si può riconoscere, invece, la
penna di papa Francesco, il quale, tuttavia, non mi sembra abbia precisato se intende
riferirsi alla speranza cristiana (sconfitta della morte, resurrezione, immortalità), alla speranza
nelle trasformazioni sociali (quali?) o, più genericamente, secondo il
“pensiero positivo”, all’idea che tutto possa andare per il meglio.
Molto rumore ha suscitato, di recente, la corrispondenza, che ha preso
spunto dalla Lumen fidei, tra Eugenio
Scalfari, il fondatore di La Repubblica
e papa Francesco. Spinto dal suo irrefrenabile protagonismo [chi lo ha
conosciuto bene, come Giampaolo Pansa, lo descrive come «un primo della classe
geniale, testardo, autoritario, con un’autostima enorme, convinto di avere
sempre ragione al punto di non sopportare chi si azzarda a mettere in dubbio la
sua assoluta perspicacia», capace di considerare anche le «critiche un omaggio alla
propria fama e all’instancabile presenza sul campo»] e dalla facilità di
ascolto che ha, Scalfari “finge” di considerare papa Francesco come il vero
autore dell’enciclica, in modo da potergli rivolgergli alcune domande, cosa che
altrimenti risulterebbe solo un impertinente andare a molestare un papa “sociale”
e non-teologo con domande sulla fede.
Tra le varie questioni sollevate vorrei evidenziarne due: quella sulla
“fedeltà” di Dio a Israele e quella sulle scelte da operare secondo coscienza.
Chiede Scalfari: «Dio promise ad Abramo e al popolo eletto di Israele
prosperità e felicità, ma questa promessa non fu mai realizzata e culminò […]
nell’orrore della Shoah. Il Dio di Abramo, che è anche quello dei cristiani, non
ha dunque mantenuto la sua promessa?» E questa la non-risposta del papa: «Anch'io, nell'amicizia che ho coltivato lungo tutti questi
anni con i fratelli ebrei, in Argentina, molte volte nella preghiera ho
interrogato Dio, in modo particolare quando la mente andava al ricordo della
terribile esperienza della Shoah. Quel che Le posso dire, con l'apostolo Paolo,
è che mai è venuta meno la fedeltà di Dio all'alleanza stretta con Israele e
che, attraverso le terribili prove di questi secoli, gli ebrei hanno conservato
la loro fede in Dio. E di questo, a loro, non saremo mai sufficientemente
grati, come Chiesa, ma anche come umanità. Essi poi, proprio perseverando nella
fede nel Dio dell'alleanza, richiamano tutti, anche noi cristiani, al fatto che
siamo sempre in attesa, come dei pellegrini, del ritorno del Signore e che dunque
sempre dobbiamo essere aperti verso di Lui e mai arroccarci in ciò che abbiamo
già raggiunto». Evidentemente, sarebbe troppo
duro riconoscere che Dio non risponde mai, perché ha già “risposto” una volta
per tutte, quando ha organizzato il mondo, così com’è e come sarà, nell’atto
della creazione: un Dio che interviene puntualmente, botta e risposta, nelle
vicende umane potrà essere “consolante”, ma ci restringe a un puerile
dramma di famiglia, dominato dal vecchio conflittuale rapporto tra padre e
figli.
Altra domanda: «Se una persona non ha fede né la cerca ma commette quello
che per la chiesa è un peccato, sarà perdonato dal Dio cristiano?» E altra non-risposta
(che si lega poi alla questione della verità, assoluta o relativa, oggettiva o
soggettiva): «Mi chiede se il Dio
dei cristiani perdona chi non crede e non cerca la fede. Premesso che - ed è la
cosa fondamentale - la misericordia di Dio non ha limiti se ci si rivolge a lui
con cuore sincero e contrito, la questione per chi non crede in Dio sta
nell'obbedire alla propria coscienza. Il peccato, anche per chi non ha la fede,
c'è quando si va contro la coscienza. Ascoltare e obbedire ad essa significa,
infatti, decidersi di fronte a ciò che viene percepito come bene o come male. E
su questa decisione si gioca la bontà o la malvagità del nostro agire». Il riferimento alla coscienza è quanto mai complesso, delicato, insidioso e
non può ridursi a una sorta di “va dove ti porta il cuore”. Già dall’antichità
risuonano le parole di Medea: «Video meliora
proboque, deteriora sequor» (Ovidio,
Metam., 7, 20) o quelle altrettanto
famose di S. Paolo: «Io non compio il bene che voglio, ma il male che non
voglio» (Rom., 7, 19) e oggi sappiamo che l’inconscio è il nostro più grande interno
manipolatore. Se qualsiasi decisione presa con ardore deve essere considerata sincera, anche — tanto per andare ai soliti riferimenti — Mussolini, Hitler e Stalin avranno agito pensando di fare quello che a loro sarà sembrato il bene da perseguire. Dunque, non sappiamo su cosa si fondano nostre “scelte” e dove ci portano. Si vuole,
con la copertura della misericordia, riaprire la porta a quel relativismo tanto
combattuto da papa Benedetto XVI ovvero ci sono altre modalità all’interno stesso
della tradizione cattolica? Non si è voluto ricordare che, ad es., l’altro Autore
dell’enciclica, per convenienza rimosso da entrambi gli interlocutori del carteggio
estivo, sulla questione della coscienza aveva detto molto di più, rifacendosi
al cardinale John Henry Newman, nel suo viaggio del 2010 nel Regno Unito. Disse
in quell’occasione papa Joseph Ratzinger: «La forza motrice che spingeva sul
cammino della conversione era in Newman la coscienza. Ma che cosa si intende
con ciò? Nel pensiero moderno, la parola ‘coscienza’ significa che in materia
di morale e di religione, la dimensione soggettiva, l’individuo, costituisce
l’ultima istanza della decisione. Il mondo viene diviso negli ambiti
dell’oggettivo e del soggettivo. All’oggettivo appartengono le cose che si
possono calcolare e verificare mediante l’esperimento. La religione e la morale
sono sottratte a questi metodi e perciò sono considerate come ambito del
soggettivo. Qui non esisterebbero, in ultima analisi, dei criteri oggettivi.
L’ultima istanza che qui può decidere sarebbe pertanto solo il soggetto, e con
la parola ‘coscienza’ si esprime, appunto, questo: in questo ambito può
decidere solo il singolo, l’individuo con le sue intuizioni ed esperienze.” Da
qui il relativismo. La concezione che Newman ha della coscienza è
diametralmente opposta. Per lui ‘coscienza’ significa la capacità di verità
dell’uomo: la capacità di riconoscere proprio negli ambiti decisivi della sua
esistenza – religione e morale – una verità, ‘la’ verità. La coscienza, la
capacità dell’uomo di riconoscere la verità, gli impone con ciò, al tempo
stesso, il dovere di incamminarsi verso la verità, di cercarla e di
sottomettersi ad essa laddove la incontra. Coscienza è capacità di verità e
obbedienza nei confronti della verità, che si mostra all’uomo che cerca col
cuore aperto. Il cammino delle conversioni di Newman è un cammino della
coscienza: un cammino non della soggettività che si afferma, ma, proprio al
contrario, dell’obbedienza verso la verità che passo passo si apriva a lui.
[...] Per poter asserire l’identità tra il concetto che Newman aveva della
coscienza e la moderna comprensione soggettiva della coscienza, si ama far
riferimento alla sua parola secondo cui egli – nel caso avesse dovuto fare un
brindisi – avrebbe brindato prima alla coscienza e poi al papa. Ma in questa
affermazione, ‘coscienza’ non significa l’ultima obbligatorietà dell’intuizione
soggettiva. È espressione dell’accessibilità e della forza vincolante della
verità: in ciò si fonda il suo primato. Al papa può essere dedicato il secondo
brindisi, perché è compito suo esigere l’obbedienza nei confronti della
verità». Un persorso, dunque, che porterebbe in tutta un’altra direzione da
quella abbozzata da papa Francesco.
Non so poi come si possa formulare una
domanda (e poi prenderla sul serio) quale quella sulla fine della nostra specie
che avrebbei, di conseguenza, che «nessuno penserà più a Dio».
Mah, in conclusione, mi sia umilmente consentito di dire, con
Shakespeare: Much Ado About Nothing (Molto rumore per nulla): tuttavia,
per i media fare un po’ di rumore è già un successo e, quindi, tutti
contenti...!
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