domenica 22 gennaio 2012

Nel mio cantuccio d’ombra romita...

L'ora di Barga
Al mio cantuccio donde non sento
se non le reste brusir del grano,
il suon dell'ore viene col vento
dal non veduto borgo montano:
suono che uguale, che blando cade,
come una voce che persuade.

Tu dici, È l'ora; tu dici, È tardi,
voce che cadi blanda dal cielo.
Ma un poco ancora lascia che guardi
l'albero, il ragno, l'ape, lo stelo,
cose ch'han molti secoli o un anno
o un'ora, e quelle nubi che vanno.

Lasciami immoto qui rimanere
fra tanto moto d'ale e di fronde;
e udire il gallo che da un podere
chiama, e da un altro l'altro risponde,
e quando altrove l'anima è fissa
gli strilli d'una cincia che rissa.

E suona ancora l'ora e mi manda
prima un suo grido di meraviglia
tinnulo, e quindi con la sua blanda
voce di prima parla e consiglia,
e grave grave grave m'incuora:
mi dice, È tardi; mi dice, È l'ora.

Tu vuoi che pensi dunque al ritorno
voce che cadi blanda dal cielo!
Ma bello è questo poco di giorno
che mi traluce come da un velo!
Lo so ch'è l'ora, lo so ch'è tardi:
ma un poco ancora lascia che guardi.

Lascia che guardi dentro il mio cuore.
lascia ch'io viva del mio passato;
se c'è sul bronco sempre quel fiore,
s'io trovi un bacio che non ho dato!
Nel mio cantuccio d'ombra romita
lascia ch'io pianga su la mia vita!

E suona ancora l'ora, e mi squilla
due volte un grido quasi di cruccio,
e poi, tornata blanda e tranquilla,
mi persuade nel mio cantuccio:
è tardi! è l'ora! Sì ritorniamo
dove son quelli ch'amano ed amo.
(dai Canti di Castelvecchio)

Rifugiato nel suo «cantuccio d’ombra romita» (angulus umbrae, terrarum angulus, cantuccio di mondo…), Pascoli vien raggiunto dal «suon dell’ore» (ricordo leopardiano) dell’orologio di Barga (nella cui frazione di Castelvecchio egli si trova) e avverte il suono della campana come voce (metafora!) che lo chiama e lo persuade infine a uscire dal suo immobilismo, nel quale vorrebbe restare «un poco ancora» chiedendo: «lascia ch’io pianga su la mia vita». Ma è ormai tempo di andare, anzi di tornare, al di là della vita, «dove son quelli ch’amano ed amo».
Non voglio “commentare” la poesia (basta cercare, non si fa molta fatica a trovare commenti), ma penso a quel pianto del poeta che, pur nascosto nel suo piccolo rifugio, non rimane in silenzio, al suo pianto che non rimane solo vissuto, ma viene scritto, ed è ormai davanti e dentro di noi che lo leggiamo. Che strano meraviglioso bisogno, quello del poeta, di andare oltre, oggettivare, narrare… E non è per dare voce ai pianti che non sono stati scritti che il poeta scrive dei suoi per veicolare quelli? E perché, anch’io, ora, "devo" scrivere di questa lettura?

1 commento:

Pino Torre ha detto...

GRAZIE!
Che la poesia non sia più solo nel passato!
Risuscitiamola nel nostro presente per i nostri e gli altrui futuri!
Hai scritto a te, a noi, a tutti, perchè:
Sì ritorniamo dove son quelli ch'amano ed amo.
Ma quelli sono anche "al di quà" nella vita?!
Come possiamo cercarli, amarli cantarli poeticamente da vivi e per sempre?
Perchè i nostri cari li pensiamo da morti, "all'ombra dè cipressi"?
Che bello cogliere l'attimo fuggente, esso ci apre all'infinito!
Con affetto!
Pino