Sotto influenze diverse (arte negra, khmer, Constantin Brancusi…), negli anni 1910-13 Modigliani disegnò e dipinse numerose Cariatidi, intese come studi preparatori per sculture, affascinanti e arcaiche, misteriose e ieratiche. In quella del 1911-12 (a cui Paul Alexandre — medico, appassionato d’arte, amico e sostenitore di Modigliani — diede il titolo di Mademoiselle Grain de café; ora al Museo di Düsseldorf) si è voluto riconoscere il profilo aquilino, la frangetta, i capelli raccolti della poetessa russa Anna Achmatova, conosciuta in quegli anni da Modigliani. Nel dipinto, si possono anche scorgere la figura scura di un uomo dietro la donna e un viso sulla sua coscia destra.
Blog: un’occasione per parlare di sé ma non per sé, un tentativo di arginare lo spreco di esperienze, pensieri, emozioni, offrendone qualche frammento e fidando sul potenziale di universalità che è in ognuno; per riannodare fili, stabilire legami; come mani, parole tese verso…
mercoledì 28 dicembre 2011
martedì 27 dicembre 2011
Schermaglie#21/Storia d'amore
Francesco (Citto) Maselli, il più “impegnato” tra i registi del dopoguerra sia nella vita che nelle opere, nel 1986 tornava al cinema dopo dieci anni di attività politica con Storia d’amore, film che origina da una indagine sindacale sui giovani delle periferie. Per alcuni il suo film “migliore”, Storia d’amore parla di Bruna, una ragazza di borgata, di cui Maselli racconta il lavoro e gli amori, tentando di recuperare tematica e iconografia del neorealismo, anche se ormai in chiave di fiaba popolare (i poveri che hanno buoni sentimenti, sono sinceri e solidali). Il personaggio è descritto con delicata simpatia e la psicologia ora prevale sulla tematica sociale, tanto che, alla fine, Bruna morirà non di conflitti di classe, ma per l’emarginazione affettiva che i due ragazzi che ama le fanno vivere: un tema da sessuologi, quello che vede i maschi nella loro complicità relazionale (omosessuale?), l’unica che sentono veramente, mentre le donne, che restano a guardare, talora, letteralmente o metaforicamente, ne muoiono.
giovedì 22 dicembre 2011
Solstizio d'inverno (con Poussin)
L’inverno ha in Poussin (v. post Equinozio d'autunno, 23 settembre 2011 e Solstizio d'estate, 21 giugno 2011) una rappresentazione, con la molteplicità di piani di un grigio plumbeo e il suo effetto arazzo (dovuto al tremore causato dalla malattia dell’A.), di carattere catastrofico: quella di un’alluvione nella quale le varie figure, travolte da acque nemiche, cercano disperatamente una via di scampo. Inverno simbolo del declino, della fine della vita e dei vari naufragi umani.
Come quasi sempre, Poussin rende possibile una lettura teologica del quadro, lettura che consente di inserire l’evento particolare nella storia della Redenzione: la storia individule diviene così momento della storia del mondo e la storia della natura storia della salvezza. L’alluvione è il Diluvio biblico, il pentimento di Dio per la creazione, un giudizio con molte vittime (in primo piano), ma anche con un’Arca (si intravede nella nebbia), luogo di salvezza di una vita che si rinnoverà. Il serpente, ben evidente sulla sinistra del quadro, rappresentazione di Plutone, dio degli inferi, è anche allusione al cambiamento e a misteriose e sperate possibilità di ripresa…
giovedì 15 dicembre 2011
Monoteismi in dialogo?
MONOTEISMI IN DIALOGO?
Relazione di Riccardo Venturini (Centro di cultura buddhista) al
Convegno “Monoteismi in dialogo”, tenutosi il 21 Novembre 2011 nella
Sala delle Colonne della Camera dei Deputati
Monoteismi in dialogo: con chi? Tra loro soltanto o
anche con l’esterno? In dialogo tra loro: dopo essersi contrapposti, ostacolati, combattuti per secoli,
i monoteismi sono passati al dialogo e dal dialogo sembrano addirittura andare
verso un sincretismo, osteggiato ufficialemente ma auspicato da molti e, come
proposto con minore o maggiore finezza da alcuni personaggi oggi di moda,
condito con quote più o meno consistenti di elementi tratti da tradizioni
orientali.
Ma
c’è un dialogo con l’esterno? Vediamo iniziative (Cattedra dei non-credenti, Nuova
evangelizzazione, Cortile dei gentili…) che si propongono un confronto coi
cosiddetti “non-credenti” (brutta espressione, anche se certamente migliore
di “infedeli”), contrapponendo i credenti agli agnostici, ai laici
“negativi” (quelli che non riconoscono alle religioni alcuno spazio pubblico,
confinandole in spazi che dovrebbero rimanere “privati”), agli atei devoti,
agli scettici inquieti (quelli che dicono “avessi la fede…!”), lasciando fuori
alcuni arroganti rappresentanti di un vecchio ateismo militante scientistico.
Sembra trattarsi spesso, in definitiva, di un dialogo con personaggi di comodo,
quasi convocati apposta per tenere in piedi un teatrino dal quali emerge poco
di significativo. Per questo vorrei qui evidenziare la posizione di chi non si
sente né vicino né nostalgico della trascendenza monoteistica, ma avverte forte
l’esigenza della costruzione di una nuova spiritualità, nella convinzione che
una cultura, una civiltà ha bisogno di spiritualità, di religione se non vuole
cadere nel caos e che — d’altra parte — un messaggio spirituale, una religione
deve saper offrire una interpretazione del mondo se non vuole cadere
nell’irrilevanza. Ed è proprio questa difficoltà a parlare la lingua della
modernità laica che isola i monoteismi in uno spazio ripetitivo, diplomatico,
esteriore che rischia di rendere vani il dialogo e gli incontri. Difficoltà che
riguarda anche altre religioni, compreso un certo buddhismo che si presenta in
forme istituzionalizzate, ideologiche, consolatorie.
Una spiritualità, affermavo, né vicina-al né nostalgica-del monoteismo, perché quello del monoteismo sembra oggi un racconto stanco, non più in grado di interpretare il nostro mondo e di offrire risposte utili alla costruzione di orientamenti spirituali di tipo nuovo. Attualmente, infatti:
una
componente uscita, per il suo radicalismo (usiamo questo eufemismo), rigetto e
preoccupazione nel nostro Occidente, per cui siamo ancora a scrivere una sorta
di interminabile prefazione in cui ci si interroga sulla compatibilità di
essa con le acquisizioni che sono state raggiunte nel campo della democrazia e
del riconoscimento dei diritti della persona e, quindi, sulle possibilità di
convivenza e integrazione;
un’altra,
pur se ci sentiamo spinti a un incondizionato sostegno dell’opera che svolge in
difesa di un popolo, della sua memoria e della sua identità, non sembra capace,
chiusa nel suo tradizionalismo, di offrire validi contributi nella direzione
che auspicavo;
infine,
per quello che riguarda la componente a noi più vicina, se guardiamo alle
espressioni tra le più significative della cultura contemporanea non solo nel
campo delle scienze naturali e della tecnica, ma anche in quella che si suol
chiamare la dimensione umanistica, da Baudelaire a Proust, da Freud a
Lévi-Strauss, alla maggior parte della filosofia moderna, non possiamo non
constatare che siano nate e si siano affermate al di fuori della cornice
monoteistica cristiana e, anzi, con essa in antagonismo.
In che direzione guardare allora per cercare
di promuovere una nuova e moderna spiritualità?
Considerando i modi in cui il confronto si realizza
e ai piccoli spunti validi che vengono da un dialogo ancora embrionale e quasi
occulto, osserviamo che oggi non si parla più di quelle prove dell’esistenza di
Dio che avevano affollato le nostre passioni filosofiche adolescenziali
(tanto da meritarsi oggi l’ironia di uno scrittore come Gesualdo Bufalino che
dice: «”Se esistesse si saprebbe in giro”, disse il filosofo, parlando di non
so chi...»), ma si è discusso e si discute, invece, con feroci polemiche,
soprattutto negli Stati Uniti, tra creazionisti e neodarwinisti, tra
sostenitori e avversari dell’ipotesi di un disegno intelligente (Intelligent
Design), dell’ipotesi che il mondo sia governato da un principio di
organizzazione intelligente, oppure da caso e necessità, dato che questo
disegno — se ci fosse — non si potrebbe dire né tanto intelligente né
amorevole, ma anzi spesso insensato se non addirittura sadico. Questa
discussione manifesta, infatti, due componenti: una scientifica o
razionalistica, che cerca di rilevare le “mancanze”, le contraddizioni, le smagliature
reperibili nel progetto; un’altra etica, che lo rifiuta invece per ragioni
morali, non intendendo accettare nessuna complicità col male e il “disordine”.
Ed è su questa seconda componente che vorrei soffermarmi.
Per cominciare, la prima crudeltà del mondo è
quella di non rispondere alle domande che l’uomo si pone sulla sua origine e
sul suo destino, sul senso della vita, del dolore e della morte. Strana la
condizione umana…! «Egli ha messo la nozione dell’eternità nel loro cuore» (Qoèlet,
3, 11), dice la Scrittura, ma «contritum est cor meum» (Ger 23,9; Salmo
69, 19) nel non poter accedere a quell’Infinito, essendoci sempre qualche
«siepe che da tanta parte
dell'ultimo orizzonte il guardo esclude»: potremmo
dire che proprio nella coscienza di vivere in un mondo assurdo risieda la, o
almeno una, delle radici della nostra infelicità.
La fiducia nel disegno intelligente non è venuta in
crisi soltanto oggi. Fin dall’antichità classica era parsa evidente la
difficoltà di conciliare la presenza del male nel mondo con l’idea di una
divinità buona e onnipotente. Nel suo famoso tetralemma Epicuro osservava: «La
divinità o vuole abolire il male e non può; o può e non vuole; o non vuole né
può; o vuole e può. Se vuole e non può, bisogna ammettere che sia impotente, il
che è in contrasto con la nozione di divinità; se può e non vuole, che sia
malvagia, il che è ugualmente estraneo all'essenza divina; se non vuole e non
può, che sia insieme impotente e malvagia; se poi vuole e può, sola cosa
conveniente alla sua essenza, donde provengono i mali e perché non li
abolisce?» Gli interrogativi di Epicuro, ripresi da Pierre Bayle (1647-1706),
provocarono la “risposta” di Leibniz, che introdusse il termine teodicea per la
sua tesi giustificazionista di Dio di fronte al male, teoria poi avversata da
Voltaire e confutata da Kant. Il tremendo terremoto di Lisbona del 1755 scosse
non solo la terra ma anche le coscienze e portò Voltaire a scrivere il Poème
sur le désastre de Lisbonne e il Candide, nei quali lucidamente
esprimeva i suoi dubbi sull’organizzazione razionale del mondo. E potremmo
anche ricordare il poeta toscano Tommaso Crudeli (1703-45), massone,
anticonformista e libertino, vittima della “santa” Inquisizione, che, già in
precedenza, aveva ironizzato sulla provvidenza che produce questi effetti («Il
gentile terremoto coll’amabile suo moto smantellava le città…»). Oggi
basterebbe pensare allo tsunami accaduto in Giappone per mettere in
dubbio che la natura sia guidata da una mano intelligente o amorevole, vedendo
quanto poco si prenda cura delle proprie creature, sprecona al punto di
sacrificare decine di migliaia di esseri umani, proprio quelli di cui si dice
fatti a immagine e somiglianza di Dio, per dare un più comodo assetto a pietre
e acque; una natura che divide il mondo vivente in divorati e divoratori, in
cui si producono handicap, malattie, ogni sorta di dolori, morti non desiderate.
Il mondo moderno ha operato un totale rovescimento di ogni teodicea, come sinteticamente
appare nella famosa frase di Stendhal che, indignato contro la improvvida
Provvidenza, diceva: «Quel che scusa Dio è il fatto che non esiste». Vorrei permettermi
di ricordare qui un pensiero di Primo Levi, il quale asserì che una volta
esistito Auschwitz nessuno dovrebbe più parlare di Provvidenza; e, infatti,
oggi anche nel mondo cristiano si comincia a parlare del male “dopo” la
teodicea e di un cristianesimo “senza teodicea”.
Dunque, pur senza vedere il mondo governato da una
volontà cattiva (il mondo opera di un demiurgo cattivo, «arcana malvagità…
eterno dator de’ mali e reggitor del moto», «brutto
Poter che, ascoso, a
comun danno impera», per usare parole di Leopardi), il rifiuto del racconto
monoteistico viene dal fatto che la nostra coscienza morale non vuole sentirsi
complice di un principio che governa il mondo con indifferenza verso il dolore.
So bene quale sia la risposta tradizionale: non giudicate col metro umano, il
dolore viene dal peccato, tutto sarà redento, il male è una prova, siamo nel
«tempo della pazienza e dell’attesa, in cui “ciò che saremo non è stato ancora
rivelato” (1Gv 3,2)» (Cat. Chiesa Catt., 2772), l’uomo finito non può
con la sua mente limitata comprendere il mistero della imperscrutabile volontà
divina, mistero a cui si ricorre volentieri per tappare la bocca a un avversario
che, per parte sua, non sa che farsene di questo refugium theologicum.
Con quale intelligenza e con quale senso morale dovremmo, infatti, giudicare se
non con quelli che ci sono stati “dati”, due facoltà che non possono venire
sospese, non possono essere messe in frigorifero, e ci fanno prendere le
distanze non solo da un eventuale demiurgo cattivo, ma anche da un dio burlone,
che gioca col mondo, o machiavellico, che usa mezzi cattivi per fini buoni. Non
possiamo dire se la nostra coscienza etica si ponga in continuità o in
opposizione alla Legge che governa il mondo, ma comunque essa ci impedisce di
accettare questo ordine di cose, la “forza delle cose” che “stanno così”: la
kantiana “volontà buona” resta per noi la sola capace di contrastare i misfatti
che osserviamo e subiamo, e lo stesso discorso vale anche per la esigenza e la
volontà di produrre verità e bellezza.
Potrebbe, dunque, essere venuto il tempo di interrompere
il gioco millenario che l’umanità ha fatto con le divinità, cercando salvezza
nello stringere alleanze con potenze sovrumane che dovrebbero salvarlo. Direi,
provocatoriamente, che dovremmo “dimenticare”, cioè andare oltre, Mosè, Gesù e
l’eresia cristiana rappresentata dall’utopia marxiana…
- Mosè ha portato lontano il sacro, ci ha fatto dimenticare quello che era l’atteggiamento che si aveva nel nostro mondo classico, in Grecia e a Roma, quando gli dèi erano vicini, si potevano incontrare, come accadeva a Enea che, nella giovane cacciatrice, riconosceva la dea dal modo di camminare: «Vera incessu patuit Dea». Mosè sposta il sacro da qui a lì, lo allontana e, al contrario di Virgilio, ricorda che «Tu non potrai vedere il mio volto, perché nessun uomo può vedermi e restare vivo» (Es. 33, 20). Nella Torah (II Sam 6, 6-8) altri racconti ribadiscono questo orientamento: si narra di Uzzà che stese la mano verso l’arca e vi si appoggiò perché i buoi la facevano piegare e di come l’ira del Signore si accese contro Uzzà: «Elohîm lo percosse per la trasgressione. Egli morì sul posto, presso l’arca di Elohîm»; un altro episodio riguarda i figli di Aronne (Lev 10, 1-2), etc. Di conseguenza, sulla base dell’Alleanza l’attesa diviene una virtù, capace di aspettare il tempo in cui «Misericordia e verità s’incontreranno, giustizia e pace si baceranno. La verità germoglierà sulla terra e la giustizia si affaccerà dal cielo» (Sal 85/84).
- Gesù rimane nel solco del monoteismo e vuole persuaderci, contro tutte le evidenze, della bontà dell’Altissimo, affermando che «Nessuno è buono, se non uno solo, Dio» (Lu 18, 19), riprendendo la scrittura che dice anche: cantavano «ringraziamenti al Signore perché è buono, perché la sua grazia dura sempre verso Israele» (Esd 3, 11). Nel gioco dei ruoli trinitari, il Cristo sembra venuto a correggere e integrare la Legge del Padre con la Legge dell’amore («Chi ama il prossimo ha adempiuto la Legge», Rm 13, 8). Egli non si pronuncia sul male e il dolore, “giustifica” il Padre, si pone di fronte alla sofferenza offrendo la sua solidarietà e il suo martirio di “servo sofferente”, e promettendo la fine di ogni negatività (concetto cristiano di salvezza). Così facendo, Egli è al riparo da ogni coinvolgimento sul perché le cose siano andate come sono andate e vadano come vanno (con la massa di dolore innocente che chiede di essere redento). Tuttavia, se tutto si svolgesse secondo un ordine provvidenziale, espressione della volontà di un Dio buono, non ci dovrebbe essere bisogno di interventi correttivi o integrativi, per cui o Gesù è Dio ed è anch’egli “responsabile” del male che è nel mondo (in complicità col Padre) o è soltanto un “servo sofferente” e allora il suo sacrificio non è bastato — come sperimentiamo ogni giorno — a operare la grande redenzione e a cancellare il dolore, riuscendone a cambiare, forse, solo significato e modalità di gestione, come, più o meno, possiamo cercare di fare tutti noi quando vogliamo essere redentori del male nell’amore. La persona, la cui dignità viene pur affermata in quanto figlia e immagine di Dio è mortifica qui e oggi per farla splendere là e domani, senza speranza di autonoma salvezza («i discepoli rimasero costernati e chiesero: “Chi si potrà dunque salvare? E Gesù, fissando su di loro lo sguardo, disse: “Questo è impossibile agli uomini, ma a Dio tutto è possibile”», Mt. 19, 25 s.). Qui si può abbracciare il nemico e il cattivo, perché quel che succede nella storia non ha grande importanza in quanto si verrà compensati là: il discorso delle beatitudini è il grande manifesto del risarcimento, un risarcimento che si avrà in un giorno lontano, in cui “alla fine”, il Signore asciugherà tutte le lacrime, perché non ci saranno più malattie, sofferenze e morte. Ma la promessa non mantenuta illanguidisce nel tempo e la figura stessa del Redentore si è trovata progressivamente esposta al rischio di un progressivo logorio di attendibilità: l’idea del Dio summum bonum ha lasciato il posto a una figura bivalente, dal duplice volto, uno luminoso e amorevole e un altro oscuro e crudele (Jung). Ed è alla nostra “volontà buona”, che non vive nel “regno dei cieli” ma nella “repubblica della terra”, che resta il compito di combattere il male, e possibilmente vincerlo, senza giustificazionismi e senza complicità.
- L’utopia marxiana, in questa prospettiva, si qualifica come eresia cristiana: eresia, perché pensa di portare in terra una società pensata per il cielo, e cristiana, perché la colloca comunque in un altro tempo, alla fine della storia. Prigioniero del nesso perverso tra utopia e terrore, il cosiddetto umanesimo marxiano avendo a che fare con una società di uomini e non di angeli è costretto a colmare il gap attraverso una tremenda macchina di repressione e di violenza che non solo uccide la libertà, ma tradisce anche l’esigenza di giustizia in cui doveva risiedere la sua ragion d’essere.
Una spiritualità del finito significherà allora, finita
la ricerca dell’alleanza con le potenze (l’Alleanza non è più una virtù!),
vivere nella consapevolezza della contraddittoria, limitata, tragica condizione
umana, impegnata a riavvicinare quel sacro che era stato allontanato, lavorando
umilmente, contando sulle proprie forze e non più sul Pastore «che su pascoli
erbosi mi fa riposare» (Sal 23, 2). Si tratterà di una costruzione complessa di
cui cominciamo a poter vedere solo qualche abbozzo, perché una “nuova
religione”, che porti a riavvicinarci al sacro e a quello che è stato chiamato
il “reincanto del mondo”, non potrà essere costruita a tavolino. Vorrei
augurarmi che un buddhismo “critico” possa offrire, con le sue accurate analisi
della condotta in tutte le sue manifestazioni, un significativo contributo di
mediazione e di approfondimento, pur nella consapevolezza di dover compiere
anch’esso uno sforzo di modernizzazione per costruire una via occidentale per
il Buddha-Dharma. Si tratta di una meta che deve, infatti, impegnare tutti,
perché a ogni religione si può dire, come l’Angelo a Maria nelle parole di
Rilke (Annunciazione): «Tu non sei più vicina a Dio di noi; siamo
lontani tutti». E meritano di essere qui ricordate le considerazioni che Fromm,
già vari decenni fa, faceva (in The Sane Society, 1955; tr. it. Psicanalisi
della società contemporanea) su una possibile religione del futuro: «In
effetti, per coloro che vedono nelle religioni monoteistiche soltanto uno degli
stadi dell’evoluzione del genere umano, non è troppo difficile convincersi che
una nuova religione si svilupperà entro pochi secoli, una religione che
corrisponda allo sviluppo del genere umano; il più importante carattere di
questa religione sarebbe quello universalistico che corrisponderebbe
all’unificazione dell’umanità che sta oggi verificandosi; esso racchiuderebbe
gli insegnamenti umanistici comuni a tutte le grandi religioni dell’Oriente e
dell’Occidente; le sue dottrine non contraddirebbero le conoscenze razionali
dell’umanità odierna e l’accento sarebbe posto sulla pratica di vita piuttosto
che su credenze dottrinarie. Una simile religione creerebbe nuovi rituali e
nuove forme artistiche di espressione tali da produrre uno spirito di riverenza
per la vita e la solidarietà dell’uomo. Naturalmente la religione non può
essere inventata, essa si affermerà con la comparsa di un nuovo grande maestro
proprio come ne sono apparsi nei secoli precedenti quando i tempi erano maturi.
[Fromm scriveva molti decenni fa e oggi non è detto che si debba
necessariamente pensare a una persona fisica, perché potrebbe, ad esempio,
trattarsi anche del “Dio digitale” che comincia ad avere una sua esistenza
latente nei nostri computer]. Nel frattempo quelli che credono in Dio
dovrebbero esprimere la loro fede vivendola; quelli che non credono vivendo i
precetti di amore e di giustizia, e rimanendo in attesa».
Albert Camus aveva visto nella mitica figura di
Sisifo l’immagine della condizione umana, quella che ci porta a costruire,
perdere, ricominciare e aveva pensato di poter prospettare non il solito Sisifo
dannato e sconfitto, ma addirittura un “Sisifo felice”. Quale potrebbe essere
la fisionomia di una felicità legata alle fatiche e alle sconfitte di Sisifo?
Per calare questa figura archetipica nella nostra realtà quotidiana potremmo
immaginare una situazione in cui il mattino, per così dire, ci veda pieni dell’élan
vital del costruttore, potremmo dire “pazzi di gioia” nel produrre nuove
opere di bene, di bello, di vero, ma ci veda poi, la sera, “saggi di dolore” di
fronte ai limiti e alle sconfitte legate alle nostre debolezze, consapevoli di
dover ricominciare daccapo il giorno dopo. Ebbene, io credo che Sisifo, cioè
noi, possa essere felice realizzando una coscienza che riesca, tenendo insieme
la saggezza della sera e la follia del mattino, la tristezza e la gioia, a
conciliarsi con l’inconciliabile, sapendo che la felicità (la jouissance),
richiamando le parole di Maupassant, non è necessariamente allegra.
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