martedì 28 aprile 2009

Schermaglie#6/Ballon rouge


Quando mi sposto, a piedi o in macchina, l’indicatore GPS del mio telefono localizza la posizione e mi segue dovunque con gentilezza. Ha la forma di un palloncino blu e mi sembra una versione tecnologica del Ballon rouge del superpremiato film di Albert Lamorisse (1956), che raccontava la storia di amicizia tra il piccolo Pascal, un bambino di Parigi, e un palloncino rosso che lo seguiva docilmente come un cagnolino. Così finisco per giocare anch’io, camminando con una dose in più di meraviglia...
[al film di Lamorisse si è ispirato nel 2007 il regista Hou Hsiao-hsien per Le Voyage du ballon rouge, delicato vagabondaggio psicologico-ambientale, condotto con un’osservazione distaccata e un ritmo temporale disteso che si confronta al ritmo di vita frenetico della protagonista]

sabato 25 aprile 2009

Roma barocca#5/Edicola di piazza del Monte di Pietà





È l’unica decorazione della facciata del Palazzo del Monte di Pietà, nella piazza omonima. Una lapide ricorda il trasferimento dell’istituto, voluto da Clemente VIII, nel 1604, in questa nuova sede. Nell’edicola soprastante, un bassorilievo con Cristo deposto nel sepolcro (simbolo dell’Istituto), in una nicchia dotata di ampie cornici, timpano ricurvo con un cherubino che sorregge festoni, stemmi dei papi Paolo III Farnese e Clemente VIII Aldobrandini. Ai lati della targa altri due stemmi (di Roma e del card. Pietro Aldobrandini), ghirlande, nastri, etc. (foto RV)

venerdì 24 aprile 2009

Cariatidi#9/Cancellata di Palazzo Barberini, Roma


Telamoni (di Andrea Tadolini, 1788-1868) e cancellata di Palazzo Barberini, Roma. D’Annunzio descrive come apparivano in una notte incantata dopo una nevicata: “La neve copriva tutte le verghe dei cancelli, nascondeva il ferro, componeva un'opera di ricamo più leggera e più gracile d'una filigrana che i colossi ammantati di bianco sostenevano come le querci sostengono le tele dei ragni. Il giardino fioriva a similitudine d'una selva immobile di gigli enormi e difformi, congelato; era un orto posseduto da una incantazione lunatica, un esanime paradiso di Selene. Muta, solenne, profonda, la casa dei Barberini occupava l'aria: tutti i rilievi grandeggiavano candidissimi gittando un’ombra cerulea, diafana come una luce; e quei candori e quelle ombre sovrapponevano alla vera architettura dell'edifizio il fantasma d'una prodigiosa architettura ariostèa”.

(foto RV)

domenica 19 aprile 2009

Attenzione e magia

(per Stefano C.) Illusionisti, medium, borseggiatori realizzano i loro scopi sfruttando i limiti cognitivi e attentivi dei soggetti in differenti contesti. La psicologia applicata si è da sempre interessata alla conoscenza di tali limiti negli ambiti ergonomici (per determinare quali siano i carichi attentivi sopportabili da un pilota o da un operatore di macchinari che richiedono particolare destrezza, etc.), didattici (l’attenzione degli scolari), di pubblica sicurezza, etc. Oggi tale interesse si è esteso, si è dotato di strumenti messi a disposizione dalle neuroscienze (imaging cerebrale, etc.) e si stanno utilizzando i trucchi degli illusionisti nello studio della coscienza e dei processi cognitivi in genere: ne riferiscono su Nature reviews (www.nature.com/reviews november 2008) e su Le Scienze (marzo 2009) alcuni degli sperimentatori impegnati in questo campo. Al di là di una certa soddisfazione per il lavoro di demistificazione che traspare da queste ricerche, l’interesse per questi risultati è indubbio. Tuttavia, direi che quel che viene maggiormente in luce è proprio la demistificazione dell’idea o dell’illusione che la nostra mente (o, per chi vuole, la nostra anima) abbia poteri illimitati o magici: ne risulta che alla conoscenza dei nostri limiti cognitivi, sensoriali, attentivi debba essere attribuita la stessa importanza e lo stesso valore di quella che ha avuto nella fisiologia del lavoro o dello sport lo studio dei limiti del sistema neuromuscolare, ma con una più profonda consapevolezza dei nostri confini e dei pericoli della hýbris. Più informati sulle nostre limitate possibilità, gli psicologi sarebbe poi auspicabile si dedicassero alle modalità di utilizzazione ottimale e creativa dei “mezzi” che abbiamo a disposizione e all’influenza che questi esercitano nelle nostre interazioni con l’ambiente, interessandosi maggiormente ai processi creativi, ai loro contesti culturali, ai processi immaginativi e simbolici...: il nostro udito è limitato alla banda di frequenze udibili e la vista a quella delle visibili, ma in questi limiti sono comparsi Mozart e Brahms, Giotto e Van Gogh, e, con un alfabeto di una ventina di lettere, sono state scritte la Divina Commedia e la Ricerca del tempo perduto...: la psicologia potrebbe avere molte cose da approfondire!

venerdì 17 aprile 2009

Mondo fluttuante

Nella storia del Giappone si designa come "Periodo di Edo" (1600 circa-1868) il periodo che va dalla presa del potere di Ieyasu Tokugawa alla restaurazione del potere imperiale (inizio del periodo Meiji). Poiché il periodo è quello dello shogunato del clan Tokugawa è noto anche come "periodo Tokugawa". La sede del governo militare degli shogun era appunto Edo, che poi, quando vi si trasferì l’imperatore, prese il nome di Tokyo o capitale orientale, contrapposta a Kyoto, capitale occidentale, sede della corte imperiale.

Fu un periodo di pace, che vide la progressiva perdita di influenza dell’aristocrazia militare e l’emergere di una nuova classe borghese, urbana e mercantile.

L’arte figurativa del periodo si “democratizzò” nelle sue forme (produzione di stampe: poco costose, riproducibili, facilmente trasportabili, adoperate addirittura come carta da imballaggio; calendari, carte da gioco, etc.) e nei suoi contenuti, rappresentando scene di vita quotidiana, cortigiane, attori di teatro, luoghi celebri. Questa pittura è stata designata col termine Ukiyo-e (e=immagini, ukiyo=mondo fluttuante), termine che fu adoperato per primo dallo scrittore scrittore Asai Ryoi, che intitolò il suo libro Ukiyo Monogatari (Racconti del mondo fluttuante, 1660): “vivere momento per momento, volgersi interamente alla luna, alla neve, ai fiori di ciliegio e alle foglie rosse degli aceri, cantare canzoni, bere sake, consolarsi dimenticando la realtà, non preoccuparsi della miseria che ci sta di fronte, non farsi scoraggiare, essere come una zucca vuota che galleggia sulla corrente dell’acqua: questo io chiamo ukiyo”. Si adoperò questo termine per la rappresentazione di una realtà in cui si sommano impermanenza e vacuità buddhiste, e inconsistenza, frivolezza, bellezze evanescenti, ricerca del piacere immediato e dell’effimero attimo fuggente. È un mondo che passa, "di piaceri temporanei, di teatri e ristoranti, di palestre di lotta libera e di case d’appuntamento, popolato in permanenza di attori, ballerini, cantanti, cantastorie, buffoni, cortigiane, addette ai bagni pubblici e venditori ambulanti, cui si mescolavano depravati figli di ricchi mercanti, dissoluti samurai e giovani traviati" (G. B. Samsom, Japan. A Short Cultural History, 1952). La pittura ukiyo-e fu quella che più di altre fu conosciuta e assimilata dagli artisti occidentali di Ottocento-Novecento.

Tra gli artisti più noti del periodo vanno ricordati Kitagawa Utamaro (1753-1806): donne, attori del kabuki; Katsushiga Hokusai (1760-1849) e Ando Hiroshige (1797-1858): panorami.

A Hiroshige è dedicata una grande e suggestiva mostra alla Fondazione Roma Museo, via del Corso, 320. Nella visita merita attenzione la proiezione di un documentario sulla tecnica (disegno, incisione delle matrici di legno, stampa) che richiede abilità e competenze straordinarie, tecnica che ho visto tuttora impiegata per le riproduzioni attuali (non fotografiche) delle stampe ukiyo-e.

sabato 11 aprile 2009

Ri-

James Hillman, in Trame perdute, scrive che “la sillaba chiave della cultura è il prefisso ri”. Una frase che possiamo leggere in molti modi: come ri-generarsi del cosmo (nuovo inizio del mondo, miti di fondazione...) o come ri-mettersi, ri-sanarsi, ri-stabilirsi, ri-prendersi... a livello individuale. Tempo di dolore e tempo pasquale: soffermiamoci su ri-cordo (ri-dare cuore), ri-scatto, ri-torno, ri-nascita...

mercoledì 8 aprile 2009

Anatomia della dipendenza

In questi giorni di dolore, mi torna in mente il titolo di un libro, scritto anni fa e con diversa finalità, dallo psichiatra giapponese, Takeo Doi, Anatomia della dipendenza. A fronte di tanta retorica sull’armonia con la natura, possiamo osservare quanto siamo dipendenti, dall’ambiente e dagli altri, quanto fragili e costosi siano la costruzione e il mantenimento dei nostri stili di vita, considerati quasi ovvi e conquistati invece con immensi sacrifici, in un percorso di migliaia di anni. Le “mani negative” delle pitture rupestri di trentamila anni fa lanciano la stessa invocazione delle mani dei sepolti sotto le macerie...

Il grande terremoto di Lisbona del 1755 scosse non solo la terra, ma anche le coscienze, stimolando molte riflessioni che fecero vacillare l’ottimismo leibniziano sul migliore dei mondi possibili: Voltaire ne trattò nell’indimenticabile Candide. A noi, anche se non vogliamo pensare, con Schopenhauer, di vivere nel peggiore dei mondi, il compito di riflettere sulla precarietà. Né mi pare molto consolante, di fronte a tanto dolore, pensare che “non esiste alcun bene dal quale non possa sorgere un male, e nessun male dal quale non possa sorgere un bene” (Jung): per ora, l’unico grande bene che si può constatare è quello della partecipazione, della compassione e della pietà.

domenica 5 aprile 2009

Anamorfosi

Sogno: Vedo un affresco con una figura deformata in anamorfosi [effetto di illusione ottica, per cui una immagine viene proiettata sul piano in modo distorto, tale per cui il soggetto originale sia riconoscibile solamente guardando l’immagine da una posizione precisa, da Wikipedia] e dico alla mia accompagnatrice: “Vedi, basta cambiare posizione, mettersi nella giusta prospettiva e tutto va a posto”. Messaggio dall’inconscio: (come sempre) cercare il corretto punto di vista.

venerdì 3 aprile 2009

Perché si fanno figli?

Se vogliamo indagare su alcuni dei nostri comportamenti fondamentali (alimentazione, riproduzione, movimento...) ci accorgiamo che non basta constatare che si tratta di eventi biologici, motivati da pulsioni innate (o, come si diceva in passato, dagli istinti), ma occorre individuarne le motivazioni consapevoli, quelle inconscie da decifrare portandole alla coscienza e le rappresentazioni sociali che dalla natura ci conducono alla cultura. Così, uscendo dall’ovvietà deterministica e istintuale, anche sulla base delle nuove possibilità di scelta che la civiltà tecnologica ha messo a disposizione, possiamo “osare” delle domande su qualcuno degli atti più importanti della vita, dalle conseguenze durevoli e imprevedibili, come i comportamenti riproduttivi e chiedere: “Perché si fanno figli?” È quanto ha “osato” la rivista Philosophie magazine, commissionando un sondaggio (effettuato su un campione della popolazione francese nel gennaio scorso) alla TNS Sofres. Dalle risposte delle persone interrogate, che potevano scegliere anche più di un motivo privilegiato, sono emerse tre direttive fondamentali: il piacere, il dovere, l’amore. Ossia, si fanno figli per rendere la vita più bella e gioiosa 60%, per permettere al figlio di realizzare ciò che non si è potuto fare nella propria vita; per dare continuità alla famiglia, per trasmettere valori e la propria storia 47%, fare dono della vita a qualcuno 26%, divenire adulti e assumersi responsabilità 22%, per motivi religiosi 3%; per dare intensità alla vita di coppia 22%.

Due considerazioni: la prima è che oggi ci si trova di fronte al “figlio del desiderio” (la riproduzione non è più una fatalità e per questo se ne possono indagare le motivazioni); la seconda è il diffuso sentire la genitorialità come condizione della realizzazione personale e quindi necessaria per diventare adulti (il figlio come protezione dall’infantilismo!), per cui si rivendica il diritto alla riproduzione (che si esprime anche nell’aiuto attraverso la riproduzione assistita, nel riconoscimento dell’omoparentalità, etc.). Questi motivi posso essere, a loro volta, espressioni di narcisismo o, viceversa, del desiderio di divenire responsabili nei confronti di un altro (Levinas!). Non mancano, all’opposto, i comportamenti di rifiuto (ideologia del “No Kid”) sempre in nome della propria autorealizzazione: liberazione della donna, vita di coppia più piena, libertà personale con minori vincoli.

Tra i tanti commenti, mi colpisce quello di Ėlisabeth Badinter, filosofa femminista, che, tra l’altro, dice di non finire mai di sorprendersi di fronte all’illusione che chiama fantasma educativo. Questo spinge a credere che non faremo gli errori dei nostri predecessori, che alleveremo figli felici, intelligenti e realizzati, occultando irrazionalmente tutti i conflitti, le sofferenze, le frustrazioni legate alla relazione genitori-figli. Personalmente, resto sorpreso di questa sorpresa, da cui traspare una delle tante amnesie “laicistiche”: chi ha un po’ di dimestichezza con la fenomenologia del sacro non può non vedere, nel desiderio riproduttivo, quella esigenza “archetipica” di rinnovamento periodico del mondo, che consiste in una ripresa del corso della realtà, in un reinizio della creazione che non ripara la vita usurata dal tempo, ma riporta tutto all’origine, ripetendo la creazione del mondo e riattualizzando lo stato delle forze cosmiche di “allora”, quando esse erano attive e integre. Questa spinta a esprimere l’archetipo del ri-torno ri-generante è, a mio avviso, la più potente, misteriosa, inconscia e transpersonale delle motivazioni riproduttive: la cosmizzazione dell’esistenza (assimilata ai cicli naturali) rende liturgia la sessualità, con i genitori sacerdoti della Vita e il bambino forza simbolica della trasformazione della generazione in ri-generazione del Mondo. A questo punto diviene quanto mai interessante la comprensione delle motivazioni di chi non desidera avere figli e le modalità di espressione (se non vogliamo dare per scontato che viviamo in un universo desacralizzato e impoverito) che possono venire ad avere alcune fondamentali strutture archetipiche.