Per l’uomo delle culture arcaiche, il tempio delimitava lo spazio sacro e la festa il tempo sacro, una sorta di tempio nel tempo: in entrambi i casi, si poteva avere lì un diretto contatto con la realtà del “totalmente altro”. Il Mondo si rinnovava annualmente e ritrovava così la sua originaria santità: l’anno era un circolo chiuso e il Mondo veniva periodicamente ricreato. Con adeguati riti, veniva annullato il tempo profano e gli uomini, liberati da errori e da colpe, nuovi e purificati potevano ridiventare contemporanei della cosmogonia. Il valore della festa non era quello di ricordare o commemorare l’evento mitico delle origini, ma di riattualizzarlo e iniziare una nuova vita con le potenzialità intatte come alla nascita; e chi era ammalato poteva in tal modo guarire.
Per noi che viviamo in un tempo desacralizzato ed evanescente, in una linearità che conduce non alla rinascita ma verso l’ignoto della fine, l’augurio è quello di utilizzare i brandelli del Tempo “originario”, santificato dalla presenza degli dèi, per costruire almeno frammenti di un nuovo sapere della precarietà, nutrito dal “canto che nomina la Terra” e dalla consapevolezza che l’unico significato dell’esistenza umana sia quello di “accendere una luce nelle tenebre del puro essere”.
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