Hou Hsiao-Hsien, regista taiwanese (nato a Meixian, RPC, nel 1947), ha raggiunto ormai successo e popolarità, attestati anche da vari riconoscimenti (tra cui il Leone d’oro per La città dolente, Venezia 1989). Come egli stesso ha avuto occasione di riferire, nel 2003, in occasione del centenario della nascita del grande maestro del cinema giapponese Yasujirô Ozu, lo studio Shochiku “m’a proposé d’écrire et de réalizer un long-métrage.. Jamais je n’aurais imaginé un jour une telle chance. Je suis un réalisateur taïwanais. Même si je suis allé une vingtaine de fois au Japon au cours de ces vingt dernières années, je n’y habite pas. J’y suis un étranger. C’est donc instinctivement que je remarque les particularités du pays et de ses habitants”. Questo spiega molto dell’attenzione e dell’affetto per i particolari con cui il film è stato girato, film che non vuole “imitare” lo stile di Ozu, ma continuarne lo spirito, non facendo citazioni ma ri-attualizzando situazioni, trasferite all’oggi, e problemi legati alla struttura dei rapporti familiari, in particolare, quello padre-figlia “Ozu est un cinéaste passionné par la clarté, par la limpidité. Ozu sait tout de ses personnages. Moi, je suis mes personnages, pas à pas, j’ignore où ils vont mener le film. Mon style est donc naturellement moins direct, plus ambigu peut-être.”.
Per Café Lumière sarebbe forse più proprio il titolo “luce e tempo”, perché il passare del tempo è espresso attraverso i cambiamenti di luce (vedi la cultura visuale del regista: Klee, Mondrian, Léger…) e in alcune scene (libreria, caffè…) si è come dentro una camera oscura, in cui il mondo entra attraverso un foro attraverso cui passa un raggio di luce…
Come nei film di Ozu, la figlia è diventata adulta, aspetta un bambino, ma vive al di fuori di una ideologia familiare condivisa. Il padre non sa parlarle, il giovane amico libraio (non è il padre del figlio che attende) vive con lei un rapporto di tenera e silenziosa amicizia. I maschi non parlano, le donne parlano, ma non sappiamo quali siano i loro sentimenti trattenuti, quali le attese e i non-progetti di Yoko (personaggio antipatico ma “mobile”, una ragazzina che “vuole prendersi per un’altra”, come dice la canzone di coda scritta e cantata dall’interprete), attraverso i quali sentiamo passare i cambiamenti sociali.
Nel racconto principale sono inseriti due sotto-racconti riferiti all’inconscio dei protagonisti, due diversi tipi di presenza e di rapporto con esso. Per Yoko si tratta di un vero sogno (di un bambino di carne che è sostituito da un bambino di ghiaccio che si scioglie), analizzato attraverso un libro di fiabe, ricordo di un tempo perduto e della madre (morta?). Il bambino di ghiaccio è lei stessa? Forse si è disfatta per uscire dall’infanzia e soffre lo “stato intermedio” in cui si trova. La sofferenza dell’analisi e del recupero mnestico sono espressi dalla luce nera della stanza ove Yoko legge mentre c’è un temporale. Hajime esprime, invece, il suo inconscio nel disegno che realizza al computer, in cui si rappresenta al centro di una rete di linee ferroviarie, in cui vive la sua “regressione all’utero”: lì si sente protetto e lo vediamo poi andare in giro a raccogliere col microfono i suoni del mondo, che ascolta come un feto ascolta il mondo, attraverso il ventre materno, mettendo così una protettiva distanza tra sé e la realtà esterna.
L’attuale mondo neo-fluttuante è espresso attraverso il movimento (treni) e la telecomunicazione (telefoni, computer). Campi e controcampi esprimono la partecipazione dei due al mondo inconscio dell’altro senza lasciarsene tuttavia coinvolgere: Hajime apprende con impassibilità gentile la notizia della gravidanza e Yoko aprezza e si diverte guardando il disegno di Hajime. I due si muovono nella metropolitana sfiorandosi da vetture diverse, senza incontrarsi, ma la camera li unisce nella loro separatezza (tema della giusta distanza); nella scena finale altrettanto casualmente si incontrano, ma ciascuno inseguendo i suoi motivi: Yoko, mentre tutto sembra girare intorno a lei e alle sue insufficienze (ha bisogno che tutti la alimentino mentre lei sa solo bere latte e mangiare disordinatamente nella precarietà della sua esistenza, in contrasto con la seconda moglie del padre: nutrice, premurosa, realista…), non è realmente centrale ed è osservata dall’esterno (si direbbe da lontano), oggetto come tante altre persone di cui ignoriamo tutto, mentre Hajime, dall’utero protettivo della stazione, cerca di catturare il mondo che gli parla solo col rumore dei treni.
Distacco, nostalgia, incomunicabilità (molte riprese di spalle e silenzi dove ci si aspetterebbe un colloquio, come negli incontri familiari), incertezza del futuro in un quotidiano sublimato alla Ozu: il dolore, contenuto dalla contemplazione, non sfocia in tragedia, la realtà incomprensibile non viene giudicata ma osservata, il mondo e la vita girano come il groviglio di treni a Shinjuku, nella città-giocattolo della ripresa centrale-finale: la serenità è possibile solo se si affronta (e si sopporta) la questione della distanza. Si può stare vicini, ma per la comunicazione bisognerà attendere: forse allora si potrà venire alla luce, Lumière, uscendo dal… métro-utero.
In tutto il film un’irresistibile seduzione di dettagli, profumi e colori del Giappone. La vita, come dice ancora la canzone, vale la pena di essere vissuta: proprio questa.
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