Cominciamo l’anno con una fiaba: quella giapponese del X sec. intitolata Storia del tagliatore di bambù [Taketori
monogatari], nella libera versione cinematografica di Isao Takahata. È commovente che, nel 2013, due grandi maestri
dello Studio Ghibli abbiano firmato entrambi due importanti opere, lasciando un
significativo messaggio prima di andarsene: Miyazaki con Si alza il vento, conclusione della sua produzione e Takahata,
ritornato al lavoro di regìa dopo 15 anni, con Le conte de la princesse Kaguya [La
storia della principessa splendente], anche lui probabilmente per concludere la
sua produzione. Si tratta di due opere non solo da godere per i loro aspetti
formali (più avanzati quelli di Miyazaki, ancora in qualche modo artigianali, disegno
a matita/carboncino su sfondo di acquarello, quelli di Takahata), ma perché
ricche di significato spirituale, sorprendenti per il loro ottimismo tragico (o
almeno consapevole) che viene da un Paese che, per molti aspetti, sta
attraversando un periodo “critico” e, forse per questo, impegnato senza farne grande
mostra in una riflessione sulle sue radici e sul futuro da ridisegnare.
Se su Si alza il vento mi sono
già soffermato (post del 5 dic. 2014), la Storia
della principessa splendente (il titolo, per chi conosce un po’ la
letteratura giapponese non può non richiamare il Genji Monogatari, storia del “principe splendente”), è ben più di un’opera
di poesia pastorale o di «un film con insetti ed erba», secondo le parole
assolutamente “modeste” del suo realizzatore, semmai opera di ecologia umana e di
educazione spirituale.
La storia narra di un tagliatore di bambù che un giorno scopre in un
germoglio una piccola bimba. Lui e sua moglie l’allevano, si rendono conto
della sua origine soprannaturale (la vita lo è sempre!), abbandonano la vita da
contadini, la educano, come una nobile damigella. Lei cresce rapidamente e diviene una
magnifica ragazza che attira i più grandi prìncipi e lo stesso imperatore. La giovane, nella conclusione del film, ci fa
sapere che per resistere alle lusinghe di quest’ultimo aveva rivolto una
preghiera di aiuto alla Luna affinché la portasse via (depressione e desiderio
di morte, potremmo dire noi, oggi) da una vita sociale piena di artefatti e
contraffazioni, via da un pianeta nel quale era discesa quando il tagliatore
l’aveva trovata. Ma perché era discesa sulla Terra e perché questa storia era
cominciata? Lei, abitante del pianeta lunare (che dobbiamo interpretare come la,
o una, Terra pura del molto popolare, in Giappone, Buddha Amida, il quale compare
infatti in forma quasi statuaria nelle scene finali del film, senza che ne venga
tuttavia esplicitata l’identità), aveva ascoltato da una donna, discesa sulla
Terra e poi ritornata sulla Luna, una canzone (Gira, gira...presente nel film) che parlava del continuo ciclo
della vita, in cui erbe e animali nascono, crescono e poi scompaiono, vita in
cui c’è anche la sofferenza, ma in un tutto capace di nutrire
la clemenza e la compassione degli uomini. La malinconia che la donna
continuava ad avere aveva fatto nascere nella futura principessa Kaguya il
desiderio di conoscere il pianeta proibito, desiderio punito appunto con l’invio
sulla Terra, dove avrebbe incontrato tutte le impurità di cui essa è ricca. Ma,
nella sua avventura terrena, Kaguya conoscerà sì le contaminazioni e le
contraffazioni di una vita fatta solo di apparenze, ma aveva imparato a
distinguerle dalla bellezza autentica della vita nei campi, dell’esistenza
semplice e spontanea, degli amori infantili, degli affetti che portano «il sole
nel cuore» (come dice un’altra canzone che ascoltiamo nel passaggio del générique di coda). Una volta che si
ritorna sulla Luna si dimentica, come purificazione, ciò che si è visto e
sperimentato, ma Kaguya pur avendo fatto tale richiesta in un momento di
difficoltà, non gradisce questa cancellazione totale e la purezza a essa
seguente: se si conserva memoria di dove il cuore è stato, del calore della
presenza che conforta anche «nella tristezza, quando si devono accarezzare le
ferite», se sempre «si ritornerà dove il cuore è stato», quella discesa non avrà
avuto per lei il significato di un esilio e di una punizione degradante
(Kaguya, tornata sulla Luna dice infatti a un’apsara [spirito delle nubi e delle acque] che la assiste: «io non
sono contaminata!»), ma quello di una realizzazione e forse di una premessa a
una futura ulteriore “reincarnazione”. Nuovo Orfeo nella Terra pura, Kaguya,
prima di essere portata via definitivamente (?) dal Buddha della purezza, si
volge ancora per guardare ciò che sta per perdere; d’altra parte, agli “amici”
terreni di Kaguya, che guardano la Luna nella quale lei viene “riassorbita”, appare
l’immagine di una minuscola bimba come quella trovata dal tagliatore di bambù. La
purezza non affascina più, forse è addirittura metafora del gelo della morte,
da cui la nostalgia della vita spinge a fuggire: come diceva un Maestro zen,
«Nell’acqua troppo pura non vivono i pesci». Platone rovesciato, non si ha
sulla Terra ricordo dell’iperuranio, ma nei cieli il ricordo della Vita. La
visione di un buddhismo “negativo” è, con delicatezza e solo allusivamente,
rifiutata e viene prospettato in modo fiabesco il tradizionale ciclo delle
rinascite. Questi autori ci ricordano che la vita che viviamo qui sulla Terra,
piena di seduzioni e delusioni, lacrime e sorrisi, bellezze e tristezze, è la
sola che conosciamo e possiamo amare, in una Terra da incantare e pulire, ma
non da sterilizzare, e quando «si leva il vento» delle avversità ci
suggeriscono, con Valéry, che «il faut tenter de vivre»!
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