Nel numero di maggio del mensile Jesus (delle edizioni San Paolo) è stato
pubblicato un dossier dal titolo La via
italiana al Dharma (a cura di Giovanni Ferrò e Vittoria Prisciandaro). Tra
i vari articoli, un’intervista fattami da Vittoria Prisciandaro, che qui
riporto (con lievi modifiche).
Creare legami, cercare nessi,
evidenziare rapporti tra il buddhismo e la cultura occidentale. È il lavoro che
da anni porta avanti Riccardo Venturini,
professore ordinario di Psicofisiologia clinica alla Sapienza di Roma e che
viene sintetizzato nel suo ultimo saggio, intitolato appunto Ri-legature buddhiste. Laureato in
filosofia e medicina, da vari anni Venturini si occupa degli stati di coscienza
e dei livelli di vigilanza nel contesto della psicologia occidentale e in
quello delle psicologie tradizionali orientali, interessandosi in particolare dell’esperienza
religiosa e delle tecniche di meditazione e di preghiera.
Il buddhismo è oggi presente come
significativa minoranza religiosa in Occidente e anche in Italia, ma si tratta,
secondo Venturini, di «un buddhismo d’importazione, con appartenenze e
denominazioni proprie delle scuole di provenienza, con liturgie,
manifestazioni, modi di rappresentarsi adeguati a contesti culturali altri; e
non di un buddhismo occidentale capace di rispondere ai quesiti relativi alla
possibilità di inculturazione e, finalmente non più emarginato come uno dei tanti
gruppi esotici o new age, essere in grado di offrire risposte alle attuali
esigenze di spiritualità presenti in Occidente». All’autore del volume
chiediamo allora se è possibile, a suo parere, un’inculturazione nell’attuale
contesto culturale occidentale. E con che cosa deve fare i conti una via
occidentale al buddhismo.
La mia risposta è
assolutamente positiva, anche se è ancora allo stato nascente un lavoro di
inculturazione del buddhismo che possa essere paragonabile a quello svolto, in
modo incredibilmente fecondo, in India, in Cina, in Giappone e che ha
consentito che esso potesse svilupparsi e maturarsi, ricevendone,
rispettivamente, filosofia, pratica, sensibilità. Trattandosi di una tradizione
che, da un lato, si è sviluppata lontana da Eschilo e Platone, dal diritto
romano e dal cristianesimo, da Pico della Mirandola e da Cartesio, dai “lumi” e
dal romanticismo, da Nietzsche e da Freud, ossia dalle radici identitarie della
nostra civiltà, e, dall’altro, si è proposta mete e obiettivi spesso antitetici
a quelli della cultura occidentale, le difficoltà non sono trascurabili, per
cui sta ormai emergendo (dall’impegno di studiosi, esponenti di altre
religioni, laici e, anche se in misura minore, di gruppi e centri buddhisti)
l’esigenza di una seria riflessione sulla possibilità di costruire una via
occidentale al buddhismo. Di fronte a forme di militanza dottrinarie e
unilaterali, per offrire un contributo a questa “occidentalizzazione” del
buddhismo va tentata una riformulazione del Buddhadharma adeguata al nostro
attuale contesto culturale occidentale sviluppato, complesso, postmoderno,
facendo i conti con la spiritualità cristiana, con la scienza, lo spirito
critico, la laicità delle istituzioni, la democrazia e, soprattutto, muovendo
dall’assunto della centralità della persona ossia della promozione, difesa e
rispetto del soggetto, dei suoi diritti-doveri inalienabili e non negoziabili,
della sua autonomia illuminata.
Quali sono le domande spirituali
a cui il buddhismo può rispondere?
Credo sia ben evidente che oggi siamo in presenza di una domanda di
spiritualità che non trova più risposta, nel mondo occidentale sviluppato,
nelle religioni monoteistiche. Mi riferisco alla posizione di chi non si sente né
vicino né nostalgico della trascendenza monoteistica e avverte
quello monoteistico come un racconto stanco, non più in grado di interpretare il
nostro mondo, ma sente, d’altra parte, l’esigenza della costruzione di una
nuova spiritualità. È proprio la difficoltà a parlare la lingua della modernità
laica che isola infatti i monoteismi e rende spesso vani il dialogo e gli
incontri. Si è, pertanto, risvegliato l’interesse a guardare alle grandi scuole
di saggezza dell’antichità, come lo stoicismo e l’epicureismo, o a pensatori
come Montaigne o Spinoza e, in un ampliamento degli orizzonti culturali,
all’Oriente taoista e buddhista. In particolare, una
cospicua parte dell’umanità (almeno dell’Occidente) è ormai matura per
compiere, collettivamente, un grande passo avanti spirituale per affrontare il
problema del male e del dolore in tutta la sua tragicità, abbandonando i
venditori di illusioni e assumendosi la responsabilità di creare umilmente, con
le proprie mani, quel tanto (o quel poco) di bene, di vero e di bello di cui
saprà dimostrarsi capace. Il buddhismo, tradizione spirituale a-teistica,
sembra oggi possa essere in grado di offrire delle indicazioni utili alla
costruzione di orientamenti spirituali di tipo nuovo.
Rispetto ai temi della
sofferenza, della paura, della morte quale contributo offre il buddhismo?
Il mondo fenomenico è caratterizzato da un processo di nascita,
crescita, decadenza e morte. Con la comparsa degli esseri senzienti, tale processo
è avvertito come faticoso e doloroso, per cui il Buddha ha sottolineato
l’onnipresenza della sofferenza. Come tutte le grandi tradizioni, il buddhismo nasce col
proposito di aiutare l’uomo di fronte al dolore, insegnargli a riconoscerlo, a
capirne l’origine, a gestire al meglio le sofferenze causate dalla malattia, la
solitudine, la morte. La via buddhista si definisce come una via di attenzione
e consapevolezza che non vuole fornire illusioni, negazioni, oblii,
consolazioni, ma invita a confrontarsi con la realtà, accettando il coraggio
della verità che, come dice anche il Vangelo, è quella che ci può rendere
liberi. La verità — bisogno ricordarlo — ha i suoi costi, come sanno tutti i martiri,
ma è la sola che può dare risposta a un autentico bisogno di senso e di valore.
Ora, se nelle tradizioni teistiche le missioni di aiuto e di salvezza vengono affidate a qualche essere
superiore e, in particolare, a divinità misericordiose,
gran parte
del pensiero orientale (comprese varie scuole buddhiste) ha ritenuto che per
fronteggiare la onnipervasività e insopprimibilità del dolore occorra operare
sul soggetto, considerando che il male sia nel giudizio
e nella coscienza (il sé come origine e/o parte del negativo da eliminare o a
cui rinunciare): più che a risolvere,
questo orientamento tende quindi a dissolvere
il problema, attraverso una sorta di “riduzione” del soggetto. Per la dottrina
buddhista Mahayana, che afferma invece essere il samsara in nulla differente dal
Nirvana, le risposte non andranno cercate né soffocando
il soggetto nell’amore di Dio né estinguendolo in un Nirvana separato. In una
prospettiva di valorizzazione
della realtà fenomenica, che non può escludere
proprio la soggettività che ne è l’espressione più complessa ed elevata e luogo in cui si realizza la consapevolezza dell’Essere, si mira a una “intensificazione” e
“dilatazione” transpersonale del soggetto, costruttore di valore (di
compassione, bellezza, conoscenza) pur nel suo restare ancorato alla coscienza
tragica della finitezza della condizione umana. Nirvana viene così a
significare le transitorie esperienze di pienezza, completezza, serenità,
realizzate vivendo l’uno nel molteplice, l’eterno nel
transeunte, l’assoluto nel relativo, l’essenza nell’apparenza…
Quando scrive che occorre liberare
questa scuola di saggezza «da rappresentazioni folkloristiche, da
contraffazioni orientalistiche, da divisioni basate su esigenze identitarie...»
a cosa si riferisce?
La giusta esigenza
di garantire serietà e autenticità dell’insegnamento (anche in vista di una
definizione dei rapporti con lo Stato) non ha saputo trovare espressione
diversa dal rinforzo dell’appartenenza alle storiche tradizioni di insegnamento
esistenti fuori d’Italia, con la conseguenza di manifestazioni esteriori
(abiti, liturgie, festività…) che hanno finito per rinforzare un’immagine di
estraneità alla nostra cultura. La stessa organizzazione in centri, poco
comunicativi sia tra loro (per le differenti tradizioni di appartenenza) sia
con l’esterno, ha posto problemi di esclusione più che di inclusione, più di
conservazione che di innovazione. Ci sono stati fenomeni di scissioni e
problemi di armonizzazione di autorità e partecipazione; la formazione, poi,
con la frequente enfasi di una “pratica” ristretta spesso a una sola modalità
(ad es., meditazione, recitazione di mantra) ha fatto dimenticare la necessità
di una pratica integrata delle paramita
perché si possa avere una effettiva “conversione del cuore”. Tutto questo, per
usare una espressione del prof. Elikia M’Bokolo, rischia purtroppo di
configurare l’attuale movimento buddhista come «il figlio handicappato di un grande amore».
Può il dialogo
interreligioso aiutare il buddhismo a trovare una sua via occidentale?
Certamente, purché si tratti di un vero confronto, ad esempio
con la tradizione cristiana, sui problemi della persona, dell’etica e della
bioetica, e non di rappresentazioni diplomatico-folkloristiche. Il dialogo è
importante si sviluppi non solo con le ben consolidate tradizioni
monoteistiche, ma anche con quel “religioso implicito” presente nella cultura
laica. D’altro lato, i buddhisti dovrebbero presentare con più vigore la
visione di un umanesimo buddhista, per facilitare
l’interruzione del gioco millenario che l’umanità ha fatto con le divinità, cercando
la salvezza nell’alleanza con potenze sovrumane, per tentare, invece, di lavorare umilmente, contando sulle proprie limitate forze
e non più sul Pastore «che su pascoli erbosi mi fa riposare» (Sal 23, 2).
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