La mia conoscenza del prof. Callieri risale al tempo in cui, studente, frequentavo la Clinica delle malattie nervose e mentali, per seguire quelle che allora si chiamavano “esercitazioni”, che Callieri, assistente della cattedra del prof. Mario Gozzano, conduceva introducendoci all’esame del malato psichiatrico e al colloquio clinico. Ne apprezzai fin d’allora la cordialità, l’attenzione, il tono a volte di bonario paternalismo con i quali si rivolgeva ai degenti (allora reclusi).
Le nostre strade professionali successivamente si allontanarono, ma non venne mai meno la reciproca stima e simpatia. Infatti, quando venni a ricoprire la cattedra di Psicofisiologia clinica, sempre alla “Sapienza”, lo invitai più volte a tenere delle lezioni seminariali sull’attenzione, la depressione, il significato della vita. Perché, in tempi di riduzionismo e di invadenza delle cosiddette neuroscienze, Callieri era uno dei pochi con i quali si poteva continuare a fare, in una prospettiva transpersonale, discorsi di interiorità, di spiritualità, di arte dell’autotrascendenza. Benché molto avanti negli anni e con problemi di salute, ancora l’anno scorso, mi volle gratificare partecipando alla presentazione del mio libro Ri-legature buddhiste che aveva molto apprezzato. Fu il nostro ultimo incontro.
Successivamente, in una bella intervista rilasciata poco prima della sua uscita dal mondo, vidi come seppe superare il tabù che ancora a molti impedisce di parlare della morte, soffermandosi appassionatamente a riflettere sul mistero che circonda la nostra fine e sulla radicale incertezza che riguarda il nostro destino ultimo. Mi ha ricordato le parole di un altro Maestro, Mircea Eliade, che parlava della morte come dell’ultimo rito di passaggio a un nuovo modo d’essere, una prova grazie alla quale l’uomo acquisisce una esistenza dematerializzata, puramente spirituale o “latente”, come dice Saicho (una delle grandi figure del buddhismo giapponese), con la perennità indistruttibile di ciò che una volta è stato, per essere — un giorno — misteriosamente emerso dall’altra, prenatale, latenza.
Caro Callieri, ora in questa forma “spirituale” rimani per sempre in mezzo a noi, in quel “mondo” e in quel “modo” in cui prima o poi tutti saremo.
4 commenti:
In cosa consiste questo modo latente di esistenza dopo la morte?
Mathesis
Non si tratta di pensare a una vita dopo la morte: semmai dobbiamo domandarci se c'è (qualità della) vita prima della morte, ma vorrei che si riflettesse sul fatto che neppure un dio potrà fare in modo che quel che è stato non sia stato...
Vero. Ciò che è stato nessuno lo potrà mai cancellare.
In tal senso alcune parole di Florenskij possono risultare suggestive...
"Tutto passa, ma tutto rimane. Questa è la mia sensazione più profonda: che niente si perde completamente, niente svanisce, ma si conserva in qualche modo e da qualche parte. Ciò che ha valore rimane, anche se noi cessiamo di percepirlo. Così pure le grandi imprese, anche se tutti le avessero dimenticate, in qualche maniera rimangono e danno i loro frutti. Perciò, se anche ci dispiace per il passato, abbiamo però la viva sensazione della sua eternità. Al passato non abbiamo detto addio per sempre, ma solo per breve tempo".
(Pavel Aleksandrovič Florenskij, Non dimenticatemi, 12 aprile 1935)
Mathesis
Molto toccante il ricordo e l'apertura di senso. Grazie Riccardo. Alfonso
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